12 dicembre 2012
Il terroir e ì consorzi microbiologici
Il terroir è un tema molto caro ai viticoltori. Il termine è stato usato per la prima volta nel 1850, quando a Bordeaux il Parlamento si prese la briga di nominare tutti gli ettari vitati presenti nel comune e scegliere quattro aziende a cui dare l’appellativo di “terroir superiore“. Per legge, solo il vino prodotto da queste quattro aziende, che furono le uniche ad avere questa prerogativa, poté esser chiamato con l’appellativo legato al terroir “vino superiore”. Il vino così classificato aveva un valore venti volte superiore rispetto a tutti gli altri. La differenza tra queste vigne e le altre non poteva essere di natura esclusivamente chimico-fisica, era infatti legata alla particolarità di quelle vigne. Vino di terroir significava vino di quel territorio, di quella vite, che rifletteva le sensazioni legate alla microbiologia di quella vigna. Ciò che fa la differenza in un vino, infatti, è la microbiologia di una vigna o di un piccolo terreno, più che di un territorio.
Il Piemonte ne è un esempio, nel senso che tutti i vitigni che noi consideriamo autoctoni, a differenza di quelli che consideriamo internazionali, che sono meno sensibili al problema della microbiologia, sono caratterizzati dal fatto di essere inclini a un particolare territorio. In Piemonte abbiamo un vitigno importante che è il Nebbiolo e, secondo dove lo mettiamo a dimora, produciamo vini diversi. Se il Nebbiolo lo pianto a Barolo faccio il Barolo, se lo stesso Nebbiolo lo pianto a pochi chilometri di distanza – a Barbaresco – faccio il Barbaresco, se a Lessona faccio il Lessona, se a Carema faccio il Carema. Se analizziamo l’aspetto chimico-fisico del terreno o la formazione geologica, la pedologia di quel terreno, non troviamo differenze.
Le analisi rivelano lo stesso terreno, lo stesso periodo geologico di formazione, la stessa sollevazione dal fondo del mare, la stessa esposizione, le stesse caratteristiche chimico-fisiche.
L’abbaglio della zonazione e il libro del DNA
Come classifichiamo questi vini oggi? Qual è la tendenza attuale? Si parla di zonazione: quindi, a Barolo c’è la zonazione del Barolo, a Barbaresco c’è la zonazione del Barbaresco. Questi vini vengono classificati da un punto di vista chimico-fisico e per le caratteristiche di esposizione e pluviometriche. Questo per me è un errore. Non si parla mai del rapporto dinamico tra atmosfera, pianta e suolo che determina la sanità delle coltivazioni e la qualità del prodotto finito. Questo aspetto fondamentale determina la proteomica di un vitigno, intesa come l’insieme delle funzioni biologiche delle proteine e la loro identificazione in base a struttura, funzione e interazioni molecolari.
Il vitigno ha un proprio DNA, ma l’espressione di questo DNA non è legata esclusivamente a fattori genetici. Il DNA è come un libro la cui lettura da parte del territorio non è integrale: di quel DNA leggerò pagina 30, e in quel caso uscirà il Barolo; se invece leggerò pagina 35, da quel DNA uscirà il Barbaresco. Il DNA è il medesimo ma ne sto leggendo pezzi diversi.
Il DNA è avvolto da proteine; questo connubio si chiama cromatina e regola la funzione dei geni. La cromatina è influenzata da fattori esterni e tali influssi, detti meccanismi epigenetici, possono essere trasmessi da cellula a cellula e modificare la struttura del genoma. Chi decide quale pezzo di DNA deve essere letto? Non è il DNA stesso, ma le proteine di membrana, ovvero quelle presenti sulla membrana. Ciò che determina quale pezzo di DNA leggere è il consorzio microbiologico che risiede sulla radice e che stabilisce quale e come sarà il vino.
Il concetto di terroir, quindi, non è un problema chimico-fisico ma di microbiologia del terreno.
Il consorzio microbiologico di Barolo è diverso da quello di Barbaresco o di Carema. È importante riscoprire che la pianta e l’uomo sono sistemi aperti, recuperando le basi della agricoltura. Da cinquant’anni pratichiamo un’agricoltura totalmente virtuale, come in un modello di laboratorio nel quale le parti sono separate e si prendono in considerazione solo alcune variabili. Abbiamo semplificato l’agricoltura nel 1950, togliendo la pianta dall’influenza della microbiologia e operando delle stimolazioni in laboratorio. Ad esempio, se mettiamo dei sali minerali, cosa succede?
Abbiamo diviso un sistema funzionale unico che è composto dalla pianta e dai suoi microrganismi. Noi non siamo l’uomo, ma siamo l’uomo con i microrganismi che vivono su di noi.
La popolazione di organismi che abita un individuo è di numero venti volte superiore alle cellule umane che lo compongono. Se dovessimo fare un’elezione parlamentare nel nostro corpo per decidere chi deve governare, le cellule umane non sarebbero elette perché non raggiungerebbero il quorum. Questa è un’unità funzionale. I microrganismi sono un’unità funzionale che va concepita come estensione del DNA. Il DNA umano va considerato insieme a tutti i microrganismi che vivono sul corpo umano e che ne estendono il patrimonio genetico. Il DNA della pianta va concepito come concorso del proprio e di quello dei microrganismi che la abitano.
E chiaro che in questo modo ci si complica la vita: sarebbe più semplice avere un sistema in cui c’è la pianta a sé stante che vive con le radici su un terreno a caso e che ha un rapporto casuale con il terreno. Questo è il modello semplice seguito fino a oggi. Seppure ancora dominante, lo si può dire ascientifico perché non tiene conto delle conoscenze attuali. L’agricoltura naturale, in realtà, è molto più scientifica e avanzata di quella tradizionale, perché considera aperto, non chiuso, il suo sistema di riferimento.
L’agricoltura come sistema aperto
Su questo tema si apre uno scenario infinito. La popolazione microbica in un suolo è molto complessa. In un grammo di terreno agrario, soprattutto vicino alle radici, vive una popolazione di circa 10 milioni di microrganismi, il corrispettivo dell’intera popolazione di New York. Questi microrganismi sono parte integrante della pianta poiché se ne nutrono: il 20% di ciò che la pianta produce va ad alimentare gli ospiti della radice. Da parte sua, la pianta ne trae beneficio. La biomassa che giace negli strati inferiori del terreno è cento volte superiore a quella sovrastante. Se giudichiamo in base all’apparenza, ad esempio una pecora su un ettaro, concludiamo di vedere solo quella.
Ma, secondo questo esempio, in uno strato di quindici centimetri di terreno, avrò l’equivalente di cento pecore.
In questa biomassa la parte più importante sono i microrganismi della radice.
Le sostanze organiche nel terreno fungono da nutrimento, nel senso che vivono, muoiono, fanno le spore, poi il ciclo ricomincia con la primavera; sono 11 tonnellate per ettaro e la parte principale è costituita dai funghi simbionti, quelli che vivono in simbiosi con la pianta. I funghi simbionti assorbono nutrienti dal terreno per la pianta, amplificando l’apparato radicale dalle 600 alle 800 volte. Una pianta micorrizata ha un’estensione radicale 800 volte più sviluppata di una non micorrizata. Un millimetro cubo di terreno può essere esplorato al massimo da un millimetro di radice, ma se sono presenti ife fungine – cellule filamentose date dalla germinazione delle spore – lo sviluppo delle stesse in quel millimetro cubo può estendersi per trenta metri. Il punto di contatto è amplificato all’infinito e così la capacità di estrarre acqua e sali minerali.
Il terroir
Poniamo l’attenzione sul concetto di terroir. Le viti micorrizate producono uva di qualità superiore. Questo dato è rilevabile con la misurazione degli antiossidanti presenti nel vino, che sono sensibilmente maggiori rispetto a un vino prodotto da viti non trattate con un consorzio microbiologico.
Siccome nelle radici ci sono 10 milioni di batteri per grammo, se si vuole intervenire con una tecnologia che prevede un inoculo di microrganismi, occorre scegliere quelli più efficaci tra questi 10 milioni. Inoltre, a funzionare non sarà mai un singolo, ma il consorzio ottenuto dalla selezione tra quelli che naturalmente sarebbero presenti.
Ecco perché finora non ha rappresentato un affare per l’industria e non lo sarà mai.
La quantità di antiossidanti cambia, per il vino e per qualsiasi altro prodotto alimentare, in base alla biodiversità microbica della parte radicale. Tale biodiversità microbica incide in modo significativo sull’epigenetica, cioè sull’espressione genetica della pianta che si riflette anche sul contenuto in antiossidanti. Oggi possiamo identificare il termine terroir con l’epigenetica, cioè con l’espressione genica della pianta legata al consorzio microbiologico della radice. In agricoltura gli esempi di epigenetica sono molto numerosi: il peperone di Carmagnola, in Piemonte, se lo fate a Carmagnola è un peperone, se lo fate qualche chilometro più in là non è più lo stesso; così il pisello di Borso del Grappa, il fagiolo di Lamon, gli olii di oliva, tutti sono legati a un terreno preciso. Una volta le pesche erano legate al territorio. Le pesche di Romagna avevano una loro specifica fragranza, non ci sono più, le abbiamo fatte fuori. Il loro terroir è finito, morto.
Sappiamo che il cibo di oggi è meno salutare di quello di una volta, perché nella sua coltivazione la parte microbiotica è stata neutralizzata. I viticoltori non hanno merito nell’aver mantenuto viva quella parte microbiotica, sono solo fortunati; a differenza dei coltivatori di mais, che devono usare 300 unità di azoto per ettaro per avere una buona produzione, i viticoltori devono usarne solo 30 unità. Questa particolarità, non legata a conoscenza ma a casualità, ha permesso ai viticoltori di salvare il loro terroir. Abbiamo conservato il Barolo non grazie a viticoltori lungimiranti, ma perché non è stato necessario, o possibile, usare maggiori quantità di azoto. Se la vite avesse sopportato 300 unità di azoto, ora il Barolo non l’avremmo più.
Oggi conosciamo meglio l’uomo della terra; questo genere di studi, infatti, è molto più avanzato in medicina che in agricoltura. Paradossalmente, quelli che nell’Ottocento erano più avanti, gli agricoltori, sono rimasti indietro. In medicina, sappiamo oggi che tutte le nuove malattie autoimmuni sono legate alla mancanza di contatto con i microrganismi. L’esempio più eclatante è l’eccesso d’igiene che produce danni tremendi al nostro organismo.
Il bacio assassino
In occasione dello sbarco sulla Luna, un micro-biologo della NASA indisse una conferenza stampa poco prima della partenza degli astronauti, denunciando la possibilità che, al loro ritorno dopo un periodo di quarantena, sarebbero morti al primo bacio della moglie. Il tema richiamò una grande attenzione. Da poco si era scoperto che i topolini di laboratorio, posti in condizioni di sterilità totale, morivano appena rimessi nell’ambiente naturale. Il nuovo contatto con i microrganismi generava uno shock. Per analogia, anche gli astronauti sarebbero morti al primo bacio dopo essere rimasti in condizioni di sterilità in astronave e durante il periodo della quarantena. Da questa ipotesi è nata una tipologia di studio sulla microbiologia dell’intestino.
L’asma
Anche l’asma, malattia in rapido aumento, è stata studiata moltissimo. Tempo fa venne analizzato un nutrito campione della popolazione tedesca per ricercare le correlazioni tra due gruppi distinti di bambini e le rispettive condi-zioni ambientali: da una parte i bambini asmatici e, dall’altra, quelli che non ne erano affetti.
Il dato rilevante fu che i bambini meno soggetti all’asma vivevano in case con stufe a legna. Difficile capire la relazione tra asma e stufa a legna! Gli studi proseguirono, e correlando il dato con altri, si scoprì che si ammalavano meno d’asma i figli degli allevatori, che avevano un contatto pressoché quotidiano con gli animali. Tale frequentazione creava una flora microbiotica molto alta e generava una resistenza che altri bambini non avevano.
Malattie della cittadinanza
Gli emigranti che arrivano dal terzo mondo sono a contatto con un ambiente ben più esposto ai microrganismi del nostro. Da noi stanno bene per cinque anni; a quel punto arrivano le malattie autoimmuni. Le chiamano ironicamente “malattie della cittadinanza”, il motivo è facilmente intuibile.
Oggi mangiamo cibi industriali, sterilizzati e uniformati nel profilo aromatico. L’aroma naturale viene eliminato perché dà fastidio e sostituito con quello sintetico. L’insalata viene sterilizzata con la varechina prima ancora che venga messa in busta: ciò significa che dal punto di vista della salubrità non ci sono i colibatteri. La nostra ossessione è quella di ammazzare tutti i microbi, a prescindere dalla loro pericolosità. Su dieci milioni di batteri per grammo certamente ci possono essere anche quelli che non vanno bene per noi, ma ciò non significa che dobbiamo eliminarli tutti. A Palermo, allo Zen, c’è un po’ di delinquenza, ma a nessun sindaco salterebbe mai in testa di gassare l’intera zona. In agricoltura, invece, lo facciamo normalmente. Prima di iniziare la coltivazione di ortaggi pratichiamo la bromurazione del terreno: questo avviene in tutte le serre. Usiamo il gas nervino bromurodimetile, quello del 1915 usato per uccidere i soldati in trincea. Un gas pesante, che entra nel terreno e stermina ogni forma vivente.
I microbi sono autostoppisti che entrano nell’organismo e che, attraversandolo, lo mantengono sano. Abbiamo bisogno di un’alimentazione sana e ricca dal punto di vista microbiotico, di cibi derivanti da una salubre filiera produttiva: questo ci salva la vita.
Dal 1897 non abbiamo mai distolto attenzione su questi temi, la scuola italiana è ancora oggi eccellente nella ricerca di base.
Il consorzio microbiologico della radice ha una quantità di informazioni diverse e reagisce in maniera multiforme all’interno del rapporto sistema-pianta-suolo. Un equilibrato consorzio microbiologico accresce la fertilità della pianta, intesa come capacità di prendere dall’acqua i sali minerali presenti nel terreno; se il suo apparato radicale è 600 volte più sviluppato, questa pianta funzionerà meglio. La resistenza della pianta agli attacchi dei patogeni aumenta, diretta-mente e indirettamente. Direttamente, in quanto la pianta è più robusta e si difende meglio: le radici sono protette dai funghi e coperte da una flora microbiologica positiva. Indirettamente, perché questi microbi producono una serie di sostanze che servono anche a difendere la pianta, ad esempio contro i fitoplasmi. Se avete dei buoni actinomiceti nella radice, i fitoplasmi nella vite non li avrete mai. Gli actinomiceti producono sostanze che, immesse nella circolazione linfatica, funzionano come gli antibiotici all’interno dell’organismo umano. La streptomicina uno tra i più conosciuti antibiotici, fu scoperta perché il microbo della radice che lo produceva era casualmente finito sulle tende di Albert Schatz, il suo scopritore.
La pianta trattata con un consorzio microbico adeguato resiste assai meglio agli stress idrici e ha una differente qualità organolettica: se si misurano con un naso elettronico una pianta trattata e una pianta non trattata, si può constatare che l’odore è completamente diverso. Ancora: in una pianta non micorrizata troviamo cinque api, in una micorrizata cinquanta. Il consorzio microbico agisce quindi sull’espressione della pianta, sulle sue proprietà di difesa, sulle proteine che essa produce, sulla sua qualità aromatica e anche sugli antiossidanti: tutto in un unico pacchetto.
Allora, il produttore da dove comincia? Da un’analisi microbiologica del suolo?
È difficile fare un’analisi complessiva sui batteri, i metodi ci sono ma non dicono molto. Se effettuo un’analisi per capire quanti sono i microbi presenti nel suolo, otterrò un’indicazione sulla fertilità del terreno ma non sulla loro identità. Più facile, invece, è indurre una micorrizzazione. Se si ha la possibilità di inoculare dei batteri utili, questi interagiscono con gli indigeni e danno un congruo risultato senza sconvolgere l’equilibrio del suolo.
L’agroecosistema e il suo equilibrio
L’ecosistema è un insieme di componenti biotiche e abiotiche in relazione funzionale e in equilibrio tra di loro. Scolasticamente si distinguono due tipologie di ecosistemi, quelli naturali e quelli artificiali o antropizzati. In un ecosistema naturale le popolazioni sono in equilibrio tra di loro: esistono organismi cosiddetti produttori, i vegetali; ci sono i consumatori primari, che si nutrono dei vegetali, e poi i consumatori di ordine superiore, secondario, terziario e così via, che si nutrono di organismi di ordine inferiore, in quel meccanismo che viene detto catena o, più propriamente, “piramide alimentare”. Queste popolazioni, quindi, sono in equilibrio secondo un insieme di processi che viene detto di “omeostasi” del sistema. L’agroecosistema è un ecosistema nient’affatto naturale, anzi fortemente antropizzato; all’estremo, la sua “biocenosi” consta di una sola specie vegetale. In tale situazione gli equilibri sono profondamente alterati. La presenza di una specie assolutamente dominante fa sì che l’equilibrio sia molto precario in quanto il potere di omeostasi è estremamente basso. Ne consegue che qualunque intervento esterno tende a spostare facilmente tale equilibrio in altre direzioni. Finché l’azienda agraria è stata organizzata in senso tradizionale l’omeostasi si manteneva piuttosto attiva: l’attuazione degli avvicendamenti colturali, le coltivazioni promiscue, il mantenimento di aree boscate o a pascolativi consentivano di mantenere un elevato livello di biodiversità; la presenza degli animali e il conseguente utilizzo del letame per le fertilizzazioni manteneva attivo ed equilibrato l’ecosistema suolo. L’agricoltura industriale, con il procedere inesorabile della monocoltura, pregiudica qualsiasi possibilità di attivare meccanismi in grado di ristabilire gli equilibri, una volta che questi sono stati alterati. Da ciò si origina il complesso delle problematiche che vengono complessiva-mente rubricate sotto il nome di “avversità delle colture“. Ogni tentativo di combatterle è un tentativo di ristabilire gli equilibri, con le modalità e gli esiti più diversi.
Avversità
I fattori esterni alla biologia della pianta che ne ostacolano lo sviluppo vengono definiti avversità (in inglese pests, da cui il termine ‘pesticidi’ che corrisponde all’italiano ‘fitofarmaci’). Le avversità possono essere di origine biotica, cioè costituite da organismi viventi, oppure abiotica: agenti climatici (es. vento, grandine), inquinanti. Le avversità biotiche della vite europea (Vitis vinifera), ma anche della maggior parte delle colture più comuni, sono fondamentalmente riconducibili a due tipologie: quella dei fitofagi e quella dei patogeni.
Si definiscono fitofagi gli organismi che si nutrono degli organi della pianta provocando un danno alla coltura. Essi sono agenti di “danno”, che si configura essenzialmente come una riduzione quali-quantitativa della produzione; si tratta prevalentemente di artropodi: insetti e acari. Si definiscono patogeni gli organismi parassiti che interferiscono con i normali processi fisiologici della pianta provocando uno stato di sofferenza detta “malattia”. Gli agenti di malattie delle piante più numerosi e frequenti sono ascrivibili al gruppo dei funghi, ma importanti sono anche batteri e virus.
Difesa
II complesso degli interventi messi in atto per il controllo delle avversità va sotto il nome di “difesa delle colture“. Le strategie convenzionali di controllo dalle avversità prevedono l’impiego di fitofarmaci (o pesticidi): la cosiddetta lotta chimica o “fitoiatria“. Questi prodotti hanno una storia che risale alla metà del xix secolo; quelli tradizionali erano di origine minerale (sali di rame, zolfo) o derivati vegetali (piretri ne, nicotina), mentre quelli più diffusi oggi contengo-no, come principi attivi, molecole ottenute da processi chimici di sintesi.
I fitofarmaci si classificano in base a diverse caratteristiche tecniche. In base all’avversità contro cui sono attivi, distinguiamo, ad esempio: insetticidi, acaricidi e fungicidi. In base alla modalità di azione, distinguiamo: fitofarmaci di copertura, che agiscono all’esterno dell’organismo vegetale con funzione essenzialmente protettiva; fitofarmaci endoterapici, che presentano capacità di penetrazione, secondo meccanismi diversi, all’interno della pianta, svolgendo azione sia preventiva sia eradicante.
Tutti i fitofarmaci sono attivi perché producono effetti tossici per gli organismi agenti delle avversità. È inevitabile, quindi, che esplichino, come azione collaterale, effetti tossici anche per l’uomo, inteso sia come operatore addetto ai lavori agricoli sia come persona consumatore. Una delle strategie convenzionali che ha avuto, negli anni scorsi, maggior diffusione è la cosiddetta lotta a calendario che consiste nella difesa preventiva con trattamenti periodici indipendenti dal decorso delle infestazioni e dal rischio effettivo della loro comparsa. Il fondamento su cui si basa è la sincronizzazione del ciclo di una pianta agraria con quelli dei parassiti o fitofagi più frequenti: i trattamenti, quindi, vengono effettuati in corrispondenza delle fasi fenologiche della pianta ospite, corrispondenti alle fasi critiche del ciclo biologico delle avversità. Durante queste fasi i trattamenti chimici devono essere ripetuti a intervalli regolari, in funzione della persistenza del principio attivo del fitofarmaco impiegato.
Esistono anche metodi di controllo alternativi alla lotta chimica, che limitano o annullano gli effetti collaterali conseguenti alla tossicità dei fitofarmaci. Il presupposto dei metodi alternativi è di ridefinirne gli obiettivi rispetto ai metodi convenzionali: lo scopo non è più quello dell’eliminazione dell’avversità, bensì quello di far sì che l’infestazione si mantenga entro un limite, definito
“soglia economica d’intervento“.
La soglia d’intervento è un criterio economico utilizzato nella difesa delle colture, un’applicazione dell’analisi costi-benefici. La considerazione di fondo è che l’intervento fitoiatrico comporta una serie di costi diretti ed espliciti (acquisto del fitofarmaco, consumo di carburante, manodopera impiegata nella distribuzione, manutenzione delle macchine), cui vanno aggiunti i costi indiretti o impliciti (ammortamento macchine, amministrazione). A questi vanno sommati i costi ambientali e i rischi per la salute umana. Tale costo complessivo andrebbe comparato con il danno stimato causato dall’avversità specifica in assenza del trattamento.
Il criterio prevede di effettuare il trattamento solo quando il danno presunto è maggiore del costo del trattamento.
Per lotta biologica si intende l’insieme delle tecniche, applicate a un agroecosistema o a un altro sistema antropizzato, finalizzate al controllo di una specie dannosa mediante l’impiego di un suo antagonista naturale. La lotta biologica, pertanto, non è altro che l’applicazione di un modello di omeostasi in un sistema artificiale. Il “controllo biologico” degli organismi dannosi sfrutta l’instaurarsi di rapporti di antagonismo tra le diverse specie che vivono in un determinato ambiente e, in particolare, delle relazioni di predazione e di parassitismo. Per le sue prerogative, la lotta biologica non abbatte
la popolazione di un organismo dannoso, bensì la mantiene entro livelli tali da non costituire un danno. Questa caratteristica pone su piani differenti la lotta biologica rispetto ad altri metodi di difesa, come la lotta chimica convenzionale ma anche la lotta basata su mezzi bio-tecnologici, i quali si propongono come obiettivo l’azzeramento della popolazione dell’organismo dannoso.
La lotta biologica nasce e sviluppa la sua ricerca soprattutto nell’ambito del controllo dei fitofagi. A tale scopo vengono utilizzati in prevalenza artropodi (insetti e acari) predatori o parassitoidi. Si annoverano, però, applicazioni di sperimentata efficacia che prevedono l’utilizzo di batteri o funghi: hanno dimostrato grande efficacia contro svariate specie di fitofagi le applicazioni di Bacillus thuringensis, un batterio sporigeno che, penetrato all’interno dell’ospite, produce una tossina che in breve ne determina la morte.
In ambiti molto più limitati, si utilizza la lotta biologica anche per il controllo di patogeni, basata prevalentemente sull’impiego di ceppi attenuati degli stessi, secondo un meccanismo analogo a quello dei vaccini. È il caso di funghi come Endothìa parasítica, agente del cancro del castagno, o di batteri come Agrobacterium tumefaciens, agente del tumore batterico dei fruttiferi.
I programmi di lotta biologica sono basati su metodiche differenti per tecniche utilizzate, efficacia e costi. Schematizzo di seguito le più diffuse.
II metodo propagativo (convenzionale o classico) si applica ai fitofagi di provenienza esotica che, introdotti accidentalmente in nuovi ambienti, una volta acclimatatisi trovano terreno fertile per una rapidissima diffusione che spesso si traduce in infestazioni devastanti, con danni di gravissima entità, come la dorifora della patata, la fillossera della vite, il punteruolo della palma.
Il metodo di controllo consiste nell’introduzione di uno o più nemici naturali del fitófago pro-venienti dal suo areale d’origine. La difficoltà è di far acclimatare nel nuovo ambiente gli organismi ausiliari introdotti e metterli in condizione di riprodursi. Il metodo propagativo si applica in una prospettiva di lungo termine e punta a controllare in maniera definitiva il fitófago, in quanto si propone di ripristinare, lentamente ma in maniera duratura, un equilibrio simile a quello esistente nell’ambiente di origine. L’esempio più classico di positiva applicazione di questo metodo è il controllo della cocciniglia Icerya purchasi, fitófago degli agrumi, con la coccinella Rodolia cardinalis.
Il metodo inoculativo consiste nella liberazione, ripetuta periodicamente, di un numero limitato di esemplari di una specie predatrice o parassi-toide, autoctona o meno, comunque già presente nell’agroecosistema (“inoculazione della specie“). È il metodo di controllo biologico applicato, attualmente, con maggior frequenza. Le specie impiegate necessitano di una periodica reintroduzione, per ripristinarne sistematicamente la popolazione, in quanto il loro potenziale biotico, nelle specifiche condizioni ambientali nelle quali vengono inoculate, non è sufficiente a garantirne la stabilità. Le ragioni sono molteplici. Una di queste riguarda la difficile acclimatazione di molti ausiliari esotici nel nuovo ambiente, a causa, ad esempio, dei rigori invernali che possono impedirne lo svernamento: è il caso del Cryptolaemus montrouzieri negli agrumeti delle zone interne della California. Un’altra ragione è la riduzione della biodiversità negli agroecosistemi: molti predatori e parassitoidi hanno un regime dietetico polifago e svolgono una parte più o meno rilevante del loro ciclo su altri fitofagi, associati spesso a piante spontanee; l’assenza o la rarefazione di questi ospiti possono comportare la drastica riduzione del potenziale biologico della popolazione del predatore. È il caso dell’Opius con-color, parassitale della mosca delle olive; è una specie polifaga, originaria del Nordafrica che, nel suo ambiente d’origine, svolge diverse generazioni a spese di Ditteri Tefritidi associati a piante spontanee tipiche di quell’ambiente, mentre in Italia è costretto alla monofagia per carenza di ospiti alternativi.
Infine, sono da considerare gli effetti negativi dei trattamenti fitoiatrici o da altri interventi agronomici più o meno razionali (ad esempio, la distruzione dei residui di potatura). E nota la sensibilità degli acari predatori (fitosiedi) o di parassitaci come Aphelinus mali e Prospaltella berlesei.
Il metodo inondativo consiste nella liberazione massiva sulle colture di esemplari di una specie antagonista in modo tale da alterare sensibilmente i rapporti numerici fra la popolazione del fitofago e quella dell’antagonista. La sua applicabilità presuppone il fatto che il predatore o parassitoide possa essere allevato e quindi riprodursi in maniera regolare e abbondante. Il metodo, pur utilizzando antagonisti specifici del fitofago da controllare, utilizza le specie utili alla stregua di veri e propri fitofarmaci, distribuiti sulla coltura al momento del bisogno e presupponendo un’efficacia limitata nel tempo. Perciò, stricto sensu, deve considerarsi più propriamente un metodo biotecnologico. Con il termine metodo protettivo si identificano una serie di pratiche agronomiche attuate allo scopo di preservare le popolazioni di organismi utili in modo da incrementarne il potenziale biotico e, di conseguenza, favorirne la diffusione a discapito dei fitofagi. In particolare, questo metodo prevede la tutela della biodiversità vegetale, la salvaguardia della flora spontanea (erbe infestanti, arbusti, aree a bosco) che possono ospitare prede alternative ai fitofago e incrementarne il potenziale biotico (confronta metodo inoculativo).
La lotta guidata è un approccio alla difesa delle colture che utilizza come metodo prevalente di controllo delle avversità quello di tipo chimico, ma ribalta completamente il criterio utilizzato nella lotta a calendario. Il presupposto è l’applicazione del concetto di “soglia economica d’intervento” in base al quale l’intervento è giustificato solo se il danno previsto, inteso come riduzione qualitativa e quantitativa della produzione, è superiore al costo complessivo del trattamento, anche in termini ambientali. L’obiettivo in termini di analisi costi-benefici è di limitare al massimo gli interventi (costi), massimizzandone l’efficacia (benefici).
A questo scopo è necessario individuare con esattezza i fattori predisponenti all’attacco; il loro monitoraggio dovrebbe consentire d’individuare con sufficiente esattezza il momento in cui è necessario effettuare l’intervento di difesa. Con modalità empiriche, questo metodo trova già applicazione da diverso tempo. Un esempio è il controllo della peronospora della vite con la regola dei tre 10, un notissimo metodo empirico che utilizza parametri climatici e fenologici per determinare l’entità del rischio d’infestazione. Il metodo prevede il trattamento qualora si verifichino contemporaneamente tre condizioni:
10°C di temperatura minima nelle ultime 24 ore,
10 mm di pioggia caduti nelle ultime 24¬48 ore,
almeno 10 cm di lunghezza dei germogli.
Un altro esempio, anche se meno praticato, è quello del 15/15 per il controllo della botrite, sempre sulla vite: il trattamento antibotritico si effettua solo quando la bagnatura della vegetazione si è protratta per almeno 15 ore e la temperatura atmosferica minima è di 15 °C.
In epoca più moderna, lo sviluppo delle conoscenze sulla biologia di molti organismi dannosi ha consentito di progredire sulla strada della lotta guidata. È il caso del monitoraggio delle colture mediante “trappole spia”, apprestamenti che consentono di prevedere le infestazioni di molti fitofagi. Le più efficaci utilizzano i feromoni sessuali, speciali molecole emanate dalla femmina per richiamare il maschio per l’accoppiamento. Il momento di effettuare l’intervento si verifica quando il numero delle catture giornaliere supera una soglia critica stabilita per ciascuna specie di fitofagi e ciascuna coltura. Per le specie per le quali non è disponibile il feromone specifico, è possibile utilizzare sistemi più tradizionali ma meno efficienti, quali, ad esempio, le trappole cromotropiche,
o disorientamento sessuale o l’autocidio , che, seppur efficaci, si preoccupano relativamente degli equilibri ambientali.
Nel contempo, la lotta chimica viene condotta con la finalità di ridurne l’impatto ambientale, attraverso svariati accorgimenti quali: l’adozione di modelli previsionali che colleghino la diffusione delle avversità al verificarsi di condizioni ambientali definite (confronta lotta guidata); l’assoluta abolizione del metodo della lotta a calendario; l’uso di fitofarmaci a bassa tossicità per l’uomo e per gli insetti utili e/o a elevata selettività. L’obiettivo della lotta integrata è quello di mantenere la diffusione dell’organismo dannoso entro la soglia economica di danno.
Limiti delle strategie alternative
Alcuni padri fondatori della lotta biologica pongono l’accento sui limiti di tali metodi in agricoltura
Il metodo propagativo ha, innanzitutto, un limite nel campo d’applicazione, circoscritto ai fitofagi di provenienza alloctona, di cui si riescano a reperire, negli areali di origine, efficaci antagonisti che siano acclimatabili negli ambienti di destinazione. Un altro limite sta nei tempi lunghi, necessari affinché si possano apprezzare i risultati; tuttavia questi, una volta ottenuti, sono duraturi.
Il metodo inoculativo presenta l’inconveniente dei costi, in quanto l’intervento va ripetuto periodicamente. Se ne discute inoltre il presupposto teorico, basato su una sorta di meccanismo “a orologeria”: infatti, l’abbondanza di prede, quindi dei fitofagi, dovrebbe favorire lo sviluppo dei predatori, mentre la progressiva riduzione della popolazione di fitofagi e la conseguente scarsezza di cibo per i predatori, ne determinerebbe la scomparsa. In tal modo gli articolati meccanismi che regolano la dinamica delle popolazioni vengono costretti in uno schema modellistico e non analizzati nella loro complessità, che è, tra l’altro, la causa stessa che determina la necessità di ripetere periodica-mente l’inoculo dell’antagonista.
Il metodo inondativo comporta anch’esso ingenti costi per l’allevamento e la distribuzione massiva degli antagonisti. Inoltre, non tiene in alcun conto gli equilibri biologici dell’agroecosistema, ma prevede un approccio culturalmente analogo a quello della lotta chimica, tanto da portare a non considerarlo strettamente un metodo di controllo biologico bensì biotecnologico.
Del metodo protettivo, infine, vengono messi in discussione sia i presupposti teorici che l’efficacia pratica. Dal punto di vista dei risultati, non sono disponibili dati che la creazione delle cosiddette “aree rifugio” popolate di flora spontanea determini una reale riduzione della popolazione di organismi dannosi delle colture. Da un punto di vista teorico, poi, si discute l’utilità di favorire una biodiversità genericamente intesa, senza passare per un attento studio delle biocenosi che consenta di individuare una sorta di biodiversità funzionale a elevare il potenziale biotico degli antagonisti.
L’attuazione di efficaci programmi di lotta guidata è legata alla messa a punto di modelli previsionali che consentano di creare una relazione diretta (in matematica si direbbe una legge) tra l’insorgere di un problema fitosanitario e il verificarsi di una o più variabili ambientali, che fungano da indicatori e che dovrebbero essere costantemente monitorate. I modelli, poi, dovranno essere val¡dati, cioè ne dovrà essere verificato in campo il funzionamento reale e l’effettiva corrispondenza delle previsioni con le specifiche condizioni delle diverse zone interessate. Il problema non è di facile soluzione, in special modo in Italia, dove esistono una gamma di situazioni climatiche nettamente differenziate e un’incidenza completamente imprevedibile delle avversità. Dovrebbe, ad esempio, essere messo a punto un modello previsionale per la peronospora della vite da validare nelle condizioni ambientali dell’Italia del Nord e del Sud, così come per il mal bianco, le cicaline, le tignole, le cocciniglie e tutte le principali avversità. Da questo punto di vista sarebbe necessaria una complessa attività di ricerca, prima, e di sperimentazione, poi, che dovrebbe partire dalle università e dai centri di ricerca, ma che dovrebbe coinvolgere i soggetti che hanno un’effettiva relazione col territorio (regioni, consorzi di produttori) per la fase di validazione, indispensabile per verificare l’utilità e l’applicabilità del sistema. In verità, da questo punto di vista, in Italia si è fatto ben poco.
Strategie di difesa alternativa della vite
In linea generale si può dire che le problematiche della difesa della vite da vino sono molto diverse nei vari comprensori vitivinicoli italiani.
Inoltre sono diverse le conoscenze disponibili nel controllo dei fitofagi, ambito nel quale si è molto avanti, rispetto a quello dei patogeni.
In ambienti mediterranei, con climi caldi e asciutti, gli artropodi raramente determinano attacchi che superano la soglia economica di danno. Ciò rende, in condizioni normali, la difesa dagli artropodi non eccessivamente problematica e, spesso, superflua. Ne consegue che, in ambienti meridionali, il controllo biologico degli insetti dannosi può fare moltissimo e le possibilità di ridurre drasticamente, fino ad azzerare l’impiego dei fitofarmaci, sono reali.
Al Nord Italia, invece, specie nelle aree vallive, soggette a ristagni d’umidità, la situazione è completamente diversa e l’attenzione deve essere ben maggiore.
Il ragnetto rosso Tetranychus urticae può essere controllato efficacemente con l’inoculazione dell’acaro fitoseide Phytoseiulus persimilis, una specie comunemente allevata e disponibile sul mercato.
Molta attenzione va posta alle tignole, dannose in annate particolari anche al Sud. Per la lotta si possono adottare diversi metodi di controllo biologico di sperimentata efficacia: è disponibile il feromone specifico, impiegabile sia per trappole-spia, sia per interventi di confusione o disorientamento sessuale; si può ricorrere altresì a prodotti a base di Bacillus thuringiensis ssp. kurstakì, molto efficace contro le larve; è nota ed efficace anche l’azione di svariati antagonisti, sia parassitoidi come gli Imenotteri Braconidi o Icneumonidi, sia predatori, Aracnidi o Insetti (Dermatteri come Forfícula auricularia, Neurotteri Crisopidi come Chrysoperla carnea, Ditteri Sirfidi). Non risultano attualmente disponibili metodi efficaci di lotta biologica alle cicaline; è in sperimentazione il monitoraggio dei vigneti con trappole cromotropiche.
Allo stato attuale della ricerca non si può affermare che siano disponibili efficaci metodi di lotta biologica per il controllo dei patogeni della vite. Un interessante campo di ricerca attualmente aperto riguarda il controllo biologico dell’oidio con un fungo antagonista, Ampelomyces quisqualis: si stanno sperimentando trattamenti a fine ciclo vegetativo, mediante diffusione di spore dell’antagonista allo scopo di parassitizzare le forme svernanti (cleistoteci) dell’oidio e abbassarne il potenziale d’inoculo. Per aumentarne l’efficacia, l’impiego del fungo antagonista può integrare quello dello zolfo, antioidico tradizionale ammesso anche in viticoltura biologica.
Contro la botrite, è possibile impiegare con una certa efficacia il fungo antagonista Trichoderma harzianum, che presenta un complesso meccanismo di azione in cui interagiscono la competizione per i nutrienti, l’inibizione di alcuni enzimi prodotti dal fungo e un certo livello di resistenza indotta sulla pianta. Per avere i risultati migliori il Trichoderma va impiegato in via preventiva, a fine fioritura, per impedire il precoce insediamento della muffa grigia.
Per il controllo della peronospora non risulta, invece, alcuna sperimentazione. La migliore soluzione resta il ricorso al più tradizionale dei fitofarmaci, il rame, ammesso anche dai protocolli di produzione biologica, in quanto nelle sue formulazioni tradizionali, i solfati, non presenta alcuna capacità di penetrazione all’interno dei tessuti vegetali. In ogni caso, tra le strategie alternative alla lotta chimica finalizzate a ridurne l’impatto ambientale non vanno trascurate, come sopra descritto, la lotta guidata e la lotta integrata.
Conclusioni
Tirando le somme di questo complesso discorso, il tutto non può che ricondursi al concetto di base: l’equilibrio nell’agroecosistema. Equilibrio che è stato fortemente spostato a favore degli organismi dannosi rispetto alle specie coltivate. Quindi, l’introduzione di principi tossici nell’ambiente obbedisce alla logica di rendere più inospitali le condizioni per le avversità e favorire le specie agrarie. Ma è un circolo vizioso, perché i fitofarmaci indeboliscono notevolmente l’azione degli antagonisti naturali dei fitofagi, vanificando, almeno in parte, i tentativi.
La questione di fondo è che la nostra vite europea è una pianta che si è diffusa e adattata all’ambiente nel corso dei milioni di anni della sua evoluzione, in assenza di molte delle avversità che poi sono risultate le più pericolose. Gli agenti di peronospora e oidio, la fillossera e, più recentemente, lo Scaphoideus titanus e di conseguenza la flavescenza dorata, sono tutti di origine americana. Gli Etruschi, i Greci, i Romani non avevano questi problemi. Probabilmente dovevano fare i conti con la botrite o con qualche fitofago secondario, ma la cosa non gli impediva, in annate normali, di portare l’uva a maturità e di raccoglierla, anche perché selezionavano attentamente le varietà in base alla loro adattabilità allo specifico contesto pedoclimatico e alla loro suscettibilità ai problemi fitosanitari dell’epoca.
Questo modus operandi ha imperato fino a qualche decennio fa, consentendo all’Italia di preservare il suo inestimabile patrimonio ampelografico. È evidente che i problemi sono aumentati, in maniera esponenziale, nel momento in cui si è iniziato a forzare l’ecosistema, introducendo cultivar che nulla avevano a che fare con l’ambiente colturale, abbandonando le pratiche agronomiche tradizionali e facendo, in generale, assai poca attenzione alla conduzione della vigna che è stata, a poco a poco, trasformata in una macchina. E una continua rincorsa nel tentativo di ristabilire un equilibrio che si sposta sempre più avanti. Una sorta di mito di Sisifo in campo agronomico.
I giudizi qualitativi sulla fermentazione spontanea da parte dei produttori sono spesso contrastanti. C’è chi riporta un’esperienza negativa, chi già fermenta in modo spontaneo e chi sta incominciando ad adottare questa modalità. Nella mia personale esperienza, ho avuto modo, nel tempo, di mettere ordine in questi giudizi discrepanti, individuando alcuni punti critici. Come spunto di riflessione possiamo chiederci se la fermentazione avvenga soltanto grazie ai lieviti, oppure se dipenda da un’interazione tra mosto e lievito. Ma cosa vuol dire interagire?
II mosto come ecosistema
Il lievito interagisce con il mosto; possiamo quindi partire dalla considerazione che il problema non riguarda solo i lieviti indigeni, o il pool di lieviti selezionati come oggi ci vengono proposti dal mercato, ma la possibilità dei lieviti di interagire con il mosto, che è simile a un ecosistema. Quando pigiamo le uve in cantina, il mosto viene penetrato dall’ambiente e con questo stabilisce un’intima relazione che lo assimila a un nuovo ecosistema, colonizzato dai lieviti indigeni presenti in cantina e da quelli già presenti sulla buccia dell’uva. L’alternativa è che venga inoculato con lieviti selezionati.
Si possono proporre diversi esempi per chiarire il concetto di mosto-ecosistema. Un lievito produce alcool, può generare anche anidride solforosa e compete con i suoi simili attraverso un’azione di antagonismo. Una fermentazione spontanea vede la successione dei lieviti non-saccharomyces prima e dei lieviti Saccharomyces dopo, quindi si può parlare di fermentazione come evento sinergico. Quando un lievito esaurisce il suo compito perde di vitalità e va in autolisi, cioè in decomposizione, producendo sostanze alimentari per i lieviti (o i batteri malolattici) che seguiranno: si può parlare perciò di commensalismo. Si parla di competizione perché conosciamo il fattore killer glicoproteina prodotto dai lieviti per inibire l’attività di altri saccaromiceti. Quindi all’interno del mosto ci si può immergere in una realtà tipica degli ecosistemi, dove si stabiliscono equilibri tra le parti e diversamente gli elementi esogeni disturbano sempre. E’ lapalissiano che le aggiunte al mosto possano provocare forti squilibri in termini chimico-fisici e microbiologici.
La fermentazione spontanea non è per tutti
Per introdurre l’argomento occorre precisare che non tutti i produttori sono in condizione di governare una fermentazione spontanea e che non si può separare il concetto di qualità del mosto dall’eventualità di una fermentazione spontanea. Il rapporto che c’è tra lieviti e mosto è di basilare importanza, in quanto più il mosto è in equilibrio, più un lievito spontaneo ha modo di compiere il suo processo: separare le due cose è impossibile.
Un produttore che lavora bene, con un suolo in equilibrio e piante bellissime che producono uva di prima qualità, dovrebbe optare per la fermentazione spontanea oppure avvalersi di lieviti esogeni? In un caso felice come questo, possiamo affermare che l’aggiunta di lieviti e di additivi al mosto ne peggiorerebbe la qualità. L’esempio più chiaro è l’intervento dei lieviti esogeni rispetto a quelli indigeni. Infatti, nelle aree vitivinicole più famose d’Italia si è avuta una coevoluzione tra lieviti e vitigni autoctoni.
In tali regioni sono presenti tre, quattro ceppi storici di lieviti della buccia e della cantina; ogni anno, però, l’andamento del clima varia determinando un equilibrio fermentativo diverso, che a sua volta genera una varietà organolettica. La natura ha progressivamente isolato ceppi caratteristici di una specifica zona che fermentano in modo spontaneo lo specifico tipo di mosto di un vitigno: in equilibrio se le uve sono sane.
Per il lievito selezionato, invece, esiste un problema di interazione: non avendo avuto coevoluzione, potrebbe non riconoscere la materia prima e trascurarne alcune parti. Un esempio abbastanza chiaro è quello dei precursori aromatici che partono fin dalla foglia per arrivare alle uve. Il precursore è una sostanza non odorosa che libera l’aroma solo se viene metabolizzata in un certo modo. Il lievito indigeno conosce tutti i precursori aromatici del “suo” vino ed è quindi in grado di esaltarne le piene potenzialità.
Il mosto è vino in potenza e il lievito traduce gli elementi in esso presenti che lo fanno diventare vino, sfruttando la sua peculiare capacità di separare biochimicamente i precursori aromatici che poi liberano gli aromi, rendendo il vino estremamente tipico.
Il lievito esogeno non ha questo bagaglio culturale e potrà agire solo su alcune parti del processo di trasformazione, lasciando di fatto inespressa una parte della potenzialità del mosto e riducendo quindi la complessità del vino. Inoltre, questo lievito addizionato porta con sé delle nozioni interne nuove, proprie della sua origine di selezione, che si vanno a sommare alle caratteristiche del vino, generando di fatto la produzione di un gusto sempre più omologato. Di contro, all’utilizzo dei lieviti indigeni viene associato un aumento della complessità e della tipicità.
Aggiungere i saccaromiceti significa anche nutrirli. Inoculando lieviti esogeni nel mosto, si deve anche risolvere la questione della loro alimentazione con l’aggiunta dei nutrienti: è questo l’importante secondo passo che incide sulla qualità del vino.
Persistenza gustativa e potere tampone del vino
Il carattere della persistenza si può collegare con il potere tampone del vino. Il vino è un liquido acido e ha un suo potere tampone. Quando beviamo un sorso di vino, in bocca si produce una miscela. Ogni individuo percepisce una sensazione diversa perché il vino mischiato con la saliva dà luogo a una diversa composizione. Le reazioni, e di conseguenza le percezioni, saranno differenti per ognuno. La saliva è basica mentre il vino è acido. Più basso è il potere tampone del vino, più la saliva svolge questa funzione tampone, con la conseguenza che la capacità del vino di penetrare bene nel gusto decresce.
È stato scientificamente dimostrato che i sali azotati, cioè i sali di ammonio che si addizionano per nutrire i lieviti aggiunti, abbassano il potere tampone: la loro presenza nel vino ha l’effetto di ridurre la persistenza gustativa. Solitamente i vini naturali vengono percepiti come più complessi, più ampi, più lunghi, proprio perché non sono stati sottoposti ai processi di lavorazione convenzionali e riescono quindi a esprimere meglio le loro capacità.
Rivolgiamo ora la nostra attenzione ad altri additivi enologici, come i tannini e gli enzimi.
Il loro uso nel mosto ne ritarda la maturazione. Con la moda dei vini in barrique si è potuto constatare come spesso questi fatichino a raggiungere uno stato di equilibrio, in quanto gli elementi esogeni introdotti non riescono a inte-grarsi in un sistema che, precedentemente in equilibrio, va in disordine. L’aggiunta di additivi enologici obera il mosto di compiti altri e genera disequilibri che spesso non vengono risolti, creando discrepanze anche nella fase di degustazione. Maggiore è la qualità di un vino, più velocemente si raggiunge l’equilibrio: qualsiasi perturbazione del sistema ha conseguenze sia organolettiche, sia nel tempo di maturazione. Rimane il punto interrogativo dell’anidride solforosa. Prima e durante la fermentazione non serve; dopo – ognuno ha i suoi problemi e le sue trasformazioni – la si potrebbe usare. La cosa importante è usarne poca, in ogni caso non inciderà sulle premesse iniziali: un vino mediocre non lo salvi con la solforosa.
Infine, penso che sia importante scegliere la fermentazione spontanea non in modo virtuosistico. Farla è necessario, perché se si coltiva bene e si fa un mosto di prima qualità, il solo modo per tradurne le risorse è consentirgli di nascere senza additivi.
Palermo 12 dicembre 2012 Guido Falgares