Parlar di vino, di birra, di olio …………. non è facile
Parlar di vino, di birra, di olio …………. non è facile
Esistono ambiti del sapere che mal si prestano ad un racconto. Come raffiguri le emozioni attraverso un aggettivo, un sostantivo, se non hai la sensibilità di Lucio Battisti? Capita anche con il vino. La maggiore difficoltà consiste nel trovare una misura tra i pensieri, le emozioni, i ricordi che fluiscono alla coscienza liberamente e la loro verbalizzazione.
Ogni anno si assiste all’invasione di Guide sul vino, la birra, l’olio o di Articoli in riviste sul web che sembrano più espressione di una pubblicità a pagamento che non una recensione.
La loro utilità, almeno in pillole, è certa.
La maggior parte mostra una scarsa pluralità nella ricerca linguistica; una fedeltà pedissequa a delle parole che appaiono consumate, svuotate da un uso eccessivo e soprattutto inconsapevole. Un puro esercizio di stile, spesso una sproporzione tra parola e contesto. Una sorta di convenzione dialettica (vocabolario) sul vino che paralizza la spontaneità della espressione.
Il vero momento educativo alla sensorialità è nella vitalità e duttilità delle parole usate, nella conveniente dose di leggerezza; nel come vengono utilizzate, in quello che riescono a significare, nella stretta relazione tra parola e senso.
Se da una parte la ricchezza di pubblicazioni ha migliorato la conoscenza di un universo in cui l’Italia eccelle, dall’altro l’eccessiva esposizione mediatica ha portato a continui cortocircuiti lessicali e fraseologici.
Tanti improvvisati giornalisti-degustatori, talora privi di conoscenza grammaticale, di abilità linguistica e di competenza comunicativa, vorrebbero assurgere a personaggi letterari e non riescono ad evitare la trappola dell’umorismo involontario.
Tanti Antonio Albanese col tastevin al collo, che scrutano per alcuni lunghi minuti il calice per poi affermare un: “comunquemente è rosso”.
Tanti esperti cantori che stanno al vino, all’olio e alla birra come qualche onorevole/senatore alla letteratura.
Essi reinventano l’arte di condurre il ragionamento, il discorso; le idee sono tra loro sconnesse e procedono l’una dall’altra senza un comportamento consequenziale.
“Nos sumus vitis vera”; è questa la giustezza del loro assunto, “non berrai altro vino se non quello che ti dico io”.
Secondo tali “soloni”: “L’indice di acquistabilità (Icq) esprime la relazione tra il (loro) indice di piacevolezza (Ip), il prezzo di vendita della bottiglia e il numero di bottiglie prodotte”.
Sono tante le ragioni che mi spingono ad affermare ciò.
La prima è identificabile nella (loro) analisi dei caratteri organolettici di un “liquido” che trasmette il fastidioso vincolo morale di chi è intento a scrivere una lista di parole alle quali affidare la sua nomina a degustatore per competenza.
La seconda è identificabile in un vincolo di patto: soddisfare comunque il produttore del vino, anche se non lo richiede.
Infine, ma non meno importante, il contenuto. Il riconoscimento gusto-olfattivo è una scienza iper-soggettiva, figlia di un gusto personale; il racconto di tale esperienza significativamente emotiva è l’aspetto centrale per la sua condizione di dovere appassionare, di dover motivare, di dover suscitare un’insieme di sensazioni.
Le Cantine rischiano di logorare la propria immagine, oltre che le loro economie, quando accettano di comparire su articoli, guide la cui tendenza è di trasformare le notizie, le persone e gli eventi in uno spettacolo analogo ad un’attrazione circense.
2 gennaio 2017 Guido Falgares