Accademia dei Georgofili 14 dicembre 2018 Salvo Foti
Vino, Uomo, Natura.
La vite fa l’uva non perché l’uomo ne faccia del vino, ma solo per riprodursi. L’uva può essere un prodotto naturale, nel senso che la vite se selvatica farà il suo corso producendo delle bacche che verranno mangiate dagli animali e dall’uomo, in modo che i semi vengano disseminati e la pianta si possa riprodurre. L’uomo, con il suo genio, ha inventato il vino come oggi noi lo conosciamo. Nel tempo ha approfondito la tecnica di produzione finalizzandola sia a cercare di controllare il processo produttivo sia la qualità e, in alcuni casi, anche per fare a meno dell’uva! La tecnica in sé non è una brutta cosa. E’ l’uso che se ne fa che può essere bene o male.
Oggi si avverte, si sente la pressante esigenza di avere dei prodotti sani, cosiddetti “bio”, “naturali. Probabilmente i tanti eccessi (economici, egoismo, avidità), che hanno permesso alla tecnologia di essere un valore quasi assoluto della nostra società, hanno fatto diventare tantissimi vini dei prodotti prettamente industriali, senza anima. Per motivi legati alla nostra cultura contadina (per chi ha la fortuna di aver vissuto o vive questi antichi valori) e anche per la visione sentimentale che abbiamo del vino, noi non accettiamo tutto questo. Ma un errore sarebbe pure quello di non riconoscere ciò che di positivo c’è nella tecnica enologica di questi ultimi decenni e di accettare senza riflessione e critica tutto quello che viene dal passato, o che si paventa tale, e dall’empirismo.
Non bisogna passare da un eccesso ad un altro. E’ l’errore più diffuso e più stupido che l’uomo fa, spesso per ignoranza. Le nostre conoscenze attuali, più di prima, ci consentono oggi di fare delle scelte veramente ponderate e permetterci di contenere gli effetti negativi in tutto quello che facciamo. Cioè a dire, abbiamo la possibilità e dobbiamo optare per scegliere il male minore, il migliore compromesso possibile: perché in verità è di questo che si tratta. E’ fondamentale, insostituibile, nella vitivinicoltura, la vigna e il lavoro che noi facciamo in essa, il resto è relativo.
Bisogna inoltre non dimenticarsi che oggi in Italia esiste una legislazione, che tutti i produttori sono tenuti a rispettare, che come effetto, se veramente applicata, impone delle strutture produttive che niente o pochissimo hanno con quello che è il nostro immaginario “poetico” delle cantine di una volta. Tale legislazione, spesso generica e ottusa, impone degli ambienti di produzione più simili ad asettiche “sale operatorie di ospedale” che a cantine vere e proprie. Oggi, ad esempio, è assolutamente proibito poter vinificare in un palmento etneo costruito in pietra lavica. Eppure il palmento etneo è un sistema di vinificazione che è stato utilizzato per quasi duemila anni ed era in uso in tutta l’Etna sino ad alcuni decenni fa. Da un momento all’altro è stato considerato illegale. E proprio questo l’errore: il fatto che si distrugga e si rinneghi completamente tutto quello che si è fatto fino o poco tempo prima, per accettare senza nessuna riserva il completamente nuovo. Io credo che il passaggio debba avvenire sempre in modo graduale, ponderato. I palmenti potevano benissimo continuare a produrre dei vini, bastava solamente attuare dei cambiamenti, necessari, dovuti ad una ovvia e naturale evoluzione enologica, igienica e di sicurezza produttiva.
Il cambiare tutto e subito, spesso equivale a non cambiare niente. Che si senta fortemente la necessità di un vino (non solo il vino) sano, bio e naturale – Umano sarebbe la parola giusta- è indubbio. Il vino biologico e biodinamico avranno probabilmente sempre più diffusione. Ma bisogna fare attenzione a saper discernere tra il vero e l’illusione del vero. Tra chi veramente, quotidianamente, lavora e cerca di migliorare i suoi vini oltre che qualitativamente anche dal punto di vista dell’etica produttiva, e della eco-compatibilità, spesso senza ricorrere ad appellativi eclatanti e slogan ad effetto, ma solo utilizzando il buon senso, e chi offre l’illusione di un prodotto, di un vino tutto naturale, creato solo dalla natura, senza nessun ben che minimo intervento da parte dell’uomo, natura 100%. Mi tornano in mente le parole del mio professore di chimica enologica: l’ingrediente migliore di un vino rimarrà sempre l’onesta di chi lo produce!
Vini biologici e biodinamici, naturali.
La nascita dell’agricoltura biologica si può fare risalire a primi del ‘900. L’inglese Albert Howard, elaborò delle tecniche di compostazione per la concimazione organica in agricoltura. Qualche anno dopo lo svizzero Hans Muller mise a punto il protocollo dell’agricoltura organico-biologica. I principi generali dell’agricoltura biologica sono: il rispetto dell’equilibrio naturale dell’ambiente in cui viene svolta, il mantenimento della fertilità del suolo, attraverso l’uso di concimi organici e tecniche colturali, lavorazioni e movimentazioni del terreno non invasive, rinuncia all’utilizzo di sostanze chimiche di sintesi.
Per quanto riguarda la biodinamica, il fondatore è Rudolf Steiner, filosofo, ricercatore e fondatore dell’Antroposofia. L’anno di nascita è il 1924, quando degli agricoltori tedeschi organizzarono un incontro tenuto da Steiner. Gli scopi della biodinamica sono quelli di accrescere e mantenere la fertilità della terra curandone il fattore fondamentale: l’Humus. Produrre piante ed animali che siano in armonia e “possono dialogare con tutti i componenti dell’organismo aziendale e planetario in cui si trovano”, attraverso appositi strumenti specifici quali i preparati biodinamici, l’osservanza di calendari lunari e planetari nelle operazioni colturali e tecniche di lavorazione e la coltivazione del terreno con tecniche simili a quelli dell’agricoltura biologica. La biodinamica si basa su una concezione “olistica” dell’azienda agricola, cioè una azienda in relazione non solo con l’ambiente circostante, ma con la Terra e con il Cosmo e soprattutto con l’Uomo che ne diventa interprete e soggetto finale.
L’agricoltura biologica è forse quella che più, tra le due, si può considerare un compromesso tra il massimo rispetto possibile dell’ambiente in cui si opera e le necessità di una produzione agricola economicamente conveniente nell’attuale realtà di mercato.
Nel caso della produzione con coltivazione biodinamica dovrebbe essere imprescindibile la storicità e l’adattabilità quasi naturale, del vitigno, della viticoltura, nonché dei viticoltori nell’ambiente in cui si svolge. Questo al fine di avere delle viti talmente armonizzate e adattate in quel territorio, e al viticoltore, da risultare “naturalmente forti” e non aver necessità di interventi esterni con sostanze di origine chimica. Essa deve incidere su una vasta zona produttiva. E’ difficile pensare un tale sistema di agricoltura svolto a macchia di leopardo sul territorio: non posso io fare biodinamica se il mio vicino tratta le sue viti con prodotti chimici.
La produzione del vino dovrebbe essere sincronizzata con l’andamento stagionale. Le esigenze in temperatura, luce, escursioni termiche, di cui necessità la produzione enologica, dovranno coincidere con le stagioni relative. Cioè a dire, l’uva dovrà maturare in un periodo in cui vi è la giusta temperatura per la fermentazione, non deve esserci né troppo caldo né troppo freddo, o si è costretti ad intervenire con energia esterna, invasiva, con prodotti chimici, o altrimenti si ci dovrà accontentare di quello che ci dà la natura o, meglio, il caso, sia in quantità che in qualità. Inoltre il vino da produzione biodinamica, se veramente tale, è più sensibile al trasferimento nel tempo e nello spazio.
Nella produzione con sistema biologico vi sono più mezzi di intervento, sia nelle vigne che in cantina, e quindi vi è più possibilità per l’uomo di intervenire tecnologicamente sul vino.
Bisogna, in verità, considerare anche che i vini prodotti con coltivazione biologica e biodinamica, paradossalmente, possono essere più suscettibili, rispetto ai vini convenzionali, alla contaminazione di micotossine. Queste sono delle tossine, di origine naturale, molto dannose per la nostra salute, prodotti da funghi e che possono proliferare, in particolari circostanze, proprio per la mancanza di protezione chimica delle uve.
Purtroppo abbiamo già distrutto tanto nel nostro mondo e se la produzione biologica o biodinamica evita la presenza di certi prodotti pericolosi per la nostra salute, non significa che essa sia esente da rischi. Oggi non possono più esistere dei prodotti biologici completamente esenti da prodotti chimici di sintesi, perché “siamo tutti sotto lo stesso tetto” e tutti siamo soggetti all’inquinamento ambientale planetario. Questa è una drammatica verità che tutti dobbiamo considerare.
Va anche detto che, nella viticoltura convenzionale, gravi rischi per il viticoltore e il consumatore di vino possono provenire dall’uso spropositato di pesticidi utilizzati nel vigneto. Tali rischi sono molto più elevati per i vini provenienti da aree geografiche di nuova produzione vitivinicola. Questi paesi spesso sono molto permissivi nell’utilizzo di sostanze e tecniche estranee alla produzione enologica. In Italia e nei paesi europei a lunga tradizione e cultura enologica esiste una legislazione molto più garantista per il consumatore, ma non esente completamente da rischi.
Contiene Solfiti
L’impiego dell’anidride solforosa sotto forma di fumi, cioè a dire quella che si produce dalla combustione dello zolfo, è una pratica antichissima usata per risanare i fusti e gli ambienti enologici.
Il suo utilizzo diretto nel mosto e nel vino è più recente, risale agli inizi del novecento, anche se il vero impiego su larga scala si è avuto solo dopo la seconda guerra mondiale. Il suo impiego in cantina viene ritenuto ancora indispensabile. Essa ha diverse azioni complesse sul vino che si traducono effettivamente nella difesa delle caratteristiche organolettiche e quindi delle qualità del vino. Piccole quantità di solfiti si producono naturalmente durante la fermentazione alcolica ad opera degli stessi lieviti. E’ accertato che la solforosa può avere effetti dannosi sulla salute, come manifestazioni allergiche o intolleranza, e giustamente oggi il legislatore impone di indicare in etichetta la presenza di questa sostanza e da qui la dizione “contiene solfiti”.
La solforosa è uno strumento molto importante per l’enologo. Nel suo impiego in cantina bisognerebbe stare molto attenti alle quantità da utilizzare. In genere, più se ne utilizza meno si è lavorato bene in vigna e durante la vinificazione. Oggi la tecnologia oculata e una rigorosa igiene ci permette di utilizzare dosi se non nulle, sicuramente molto contenuti di solforosa che solo in casi eccezionali sono dannosi per il nostro organismo. Bisogna ricordare che il vino non è l’unico alimento con cui è possibile ingerire solfiti. Una enologia in assenza totale di solforosa è comunque
possibile e da perseguire, a patto però che si facciano delle scelte drastiche senza uso di altre sostanze chimiche e/o tecniche sostitutive, ed accettare il nostro vino con qualche piccolo difetto, sapendo delle difficoltà a cui potrà andare incontro nella sua conservazione e nel trasferimento nello spazio.
Produrre in assenza di solforosa impone, se non vogliamo ottenere un vino imbevile e, in certi casi, anche poco sano, un impegno notevole ed il massimo rigore in vigna, dove bisogna produrre e selezionare uve con eccezionali caratteristiche enologiche. Da parte sua il consumatore, se vuole un vino senza solforosa, deve capire e saper accettare certe piccole imperfezioni del vino.
Vino (non) filtrato.
Che un vino non sia filtrato non significa assolutamente che sia migliore di uno filtrato. La filtrazione è uno strumento tecnologico indispensabile quando abbiamo l’esigenza commerciale di vendere alcuni vini giovani, oppure nel caso di vini soggetti a rifermentazione (in cui non si vuole usare la pastorizzazione), al fine di evitare che nella bottiglia si creino dei depositi fastidiosi sia esteticamente che dal punto di vista organolettico. La filtrazione è utile nel caso si desidera imbottigliare dei vini senza la presenza di alcuni depositi, sostanzialmente inutili, in bottiglia. E’ pressoché inutile, se non dannosa, nel caso di vini per lungo tempo invecchiati che si siano naturalmente spogliati di quelle sostanze che formano il deposito in bottiglia. In un vino filtrato comunque possono, a seconda delle condizioni in cui è conservato e nel tempo, verificarsi lo stesso delle precipitazioni e di conseguenza dei depositi. Quindi spesso se troviamo dei depositi in bottiglia non significa che quel vino non è stato filtrato. Solitamente un deposito in bottiglia è oggi accettato, giustamente, da parte del consumatore che non lo vede più come un problema. Solo qualche anno fa non era così: in molti confondevano un naturale deposito del vino come un indice di sofisticazione dello stesso! Questa nuova coscienza culturale da parte del consumatore di oggi e una tecnologia più
qualificata, ha permesso al tecnico di cantina di optare o meno per la filtrazione del vino, e soprattutto, ed è questa la cosa più significativa, sul grado di filtrazione del vino. Cioè sulla possibilità di scegliere il materiale e la porosità a cui il vino deve essere filtrato. Vi è una differenza notevole nel filtrare un vino con materiale filtrante avente una porosità, ad esempio, di 1 o 100 micron. Nel primo caso siamo in grado di fermare anche i lieviti in esso contenuti, nel secondo praticamente solo alcuni depositi visibili ad occhio nudo, spesso dannosi per la qualità. Più la porosità di filtrazione è stretta, più filtrazioni si fanno, più sarà lo stress meccanico a cui è soggetto il nostro vino. Oggi, molto più rispetto a prima, il mercato è globale. L’esigenza di chi produce è quella di far arrivare la propria bottiglia di vino dalla sua cantina, in qualsiasi parte del mondo, in ottime condizioni. Nessun consumatore pagante accetterebbe mai un prodotto rovinato: indipendentemente da come è stato prodotto, rimane sempre un vino difettoso. Questo impone alla bottiglia di avere tra le sue qualità quella di essere in “grado di viaggiare” cosa che si ottiene applicando sistemi tecnologici al vino sia diretti che indiretti. L’alternativa potrebbe essere di produrre per il solo consumo locale, vendere e consumare sul posto di produzione (“a Km 0”), ma in questo caso entrano in gioco altri aspetti di carattere economico, logistico e organizzativo, non indifferenti.
Vino Umano
Una vite senza la cura del viticoltore è in grado di dare uva, anche se il frutto sarà ben diverso da quello che noi vogliamo per fare un buon vino.
Il vino è un prodotto umano. Fatto dall’uomo, in cui egli da sempre ha messo tutto se stesso, il suo genio, la sua creatività, la sua passione, il suo estro, sacrificio e impegno nel produrlo. In certi casi anche la sua furbizia, ipocrisia, disonestà e scorrettezza.
In definitiva ognuno fa il vino che è.
Il vino è stato per l’uomo, oltre che alimento, bevanda, fonte di emozioni, appagamento dei sensi, in certi casi droga. E’ entrato sin dall’inizio dei
tempi nella sfera emozionale e mentale dell’uomo. Prodotto mistico e misterioso, elevato a sangue di Cristo nella religione cattolica.
Nei tempi, l’uomo ha adeguato e plasmato la pianta della vite, come meglio ha potuto e voluto, per fare vino, introducendola in quasi tutti gli ambienti da lui antropizzati. Di conseguenza ha prodotto tantissime tipologie di vino, che sono diventati tipiche espressioni di ambienti, di vitigni e di civiltà umane. Differenti climi, terreni, vitigni, civiltà, ma un unico prodotto: il vino.
In verità il vino lo produce l’uomo, non la natura. Produrre un vino è un fatto umano non naturale.
Il vino “100% solo natura” non esiste! E’ solo un’invenzione del marketing.
La “naturalità” di un vino può essere intesa come l’impegno da parte dell’uomo di intervenire il meno possibile con energie e prodotti esterni nella trasformazione dell’uva in vino, ma per far questo è importante avere, come materia prima, un’uva eccellente.
Il consumatore, l’appassionato di vino dovrebbe sempre pensare che dietro un vino non c’è un essere superiore, ma solo un Uomo.
Un vino è solo un vino, carico di significati, storia, cultura, civiltà e umanità, ma comunque resta un prodotto “umano” a cui dare solo la giusta importanza che merita.
Ognuno di noi ha la sensibilità, la capacità di capire un vino, basta avere cura di utilizzare in modo attento tutti i nostri sensi, la vista, l’olfatto, il gusto. Il consumatore dovrebbe essere solo curioso e attento, fidarsi del proprio gusto e piacere, invece di bere con il gusto degli altri. Bere un vino solo perché definito “naturale”, di moda o perché il giornalista o l’esperto di turno ne parla o lo esalta è riduttivo. Alla fine il vino, come il cibo o, se volete, come la scelta del proprio partner, è qualcosa di molto personale e tale dovrebbe rimanere.
Se un vino piace a una persona non significa che debba piacere a tutti quanti, allo stesso modo se non piace. Bisogna degustare, bere con la propria testa, in libertà, sapendo sempre che, così come in amore, c’è un vino per ognuno di noi, basta saperlo cercare.
Marsala 14 dicembre 2018 Salvo Foti