Diversità ambientale e complessità dei vini naturali 27 giugno 2017
VINI NATURALI E FERMENTAZIONE SPONTANEA
Un segmento di mercato a cui il mondo vitivinicolo si sta interfacciando da pochi anni è rappresentato dalla produzione di vini in grado di contraddistinguersi per caratteri non solo di qualità ma soprattutto di tipicità.
Ad oggi, un vino il cui profilo sensoriale sia chiaramente riconoscibile, ovvero facilmente associabile alla cultivar impiegata per la sua produzione così come all’areale geografico di origine, può godere di vantaggi, in termini commerciali, superiori a quelli dei prodotti enologici standardizzati in termini sia di tecnologia di processo che di qualità.
Il numero di consumatori cosiddetti “specializzati”, ovvero persone dedite all’acquisto di alimenti la cui “qualità” è sostanzialmente basata sui caratteri di tipicità ed esclusività è in forte aumento. Inoltre, non è da sottovalutare, in termini economici, l’emergente mercato dei “vini naturali”, ovvero quel mercato di prodotti ottenuti con un ridotto o assente utilizzo di coadiuvanti enologici di natura sia microbiologica che chimica. La moltitudine di aziende, tanto in Italia quanto nel mondo, dedicate alla produzione di vini naturali è la chiara e tangibile risposta da parte del settore enologico alla intensa richiesta di vini tanto tipici quanto salubri. Non è un caso che, recentemente, anche la Comunità Europea abbia approvato e divulgato norme per la regolamentazione dell’uso di importanti additivi alimentari nell’ambito delle produzioni dei vini biologici e di qualità.
Dunque, è chiaro che il concetto di qualità alimentare così come quello del vino, negli ultimi decenni, ha subito un profondo cambiamento: siamo partiti dalla richiesta, da parte del mercato, di produzioni di “qualità garantita” e, passando attraverso le produzioni tipiche, siamo approdati, ad oggi, alla sponda di un mercato in cui i prodotti commercialmente “vincenti” risultano essere principalmente dotati di elevata qualità, di facile riconoscibilità e con un’impronta nutraceutico-salutistico.
Nell’ambito di tali produzioni, la microbiologia enologica sta assumendo un ruolo sempre più importante. Non è un caso che fra gli “attori” che caratterizzano un vino oltre al “terroir”, (termine francese riferito all’importanza che suolo e clima hanno sul profilo organolettico di un vino) e al vitigno, i microrganismi (lieviti e batteri lattici) risultino di fondamentale importanza per la qualità del prodotto finito.
Infatti, è possibile definire una qualità “microbiologica” nella produzione dei vini, la quale è definita da numerosi fattori, tra cui: lo stato fito-sanitario delle uve, gli aromi secondari prodotti dai lieviti in fermentazione alcolica, la complessità dei vini determinata dall’’affinamento sulle fecce nobili dei lieviti, l’equilibrio gustativo generato dalla fermentazione malo-lattica, operata dai batteri lattici, etc.
La fermentazione alcolica è una delle fasi tecnologiche di fondamentale importanza nel processo di vinificazione.
Tale fermentazione può essere condotta in modo spontaneo, ovvero dai lieviti naturalmente presenti sulle uve, nel mosto e/o nell’ambiente di cantina oppure impiegando lieviti commerciali selezionati.
Entrambe le modalità di fermentazione presentano numerosi vantaggi in termini della qualità del prodotto finito ma, d’altra parte, altrettanto numerosi risultano gli svantaggi.
Una fermentazione spontanea, in quanto tale, risulta caratterizzata da una dinamica delle popolazioni microbiche del tutto ignota e da un elevato rischio di alterazioni microbiche.
L’uso di starter commerciali, quasi sempre di origine alloctona, se da un lato assicura il corretto svolgimento della vinificazione riducendo il rischio di alterazioni microbiche dall’altra è causa di una inevitabile standardizzazione, quindi perdita di tipicità, dei prodotti finiti.
Con la moderna enologia e grazie all’uso adeguato delle biotecnologie, è possibile
superare sia l’omologazione sensoriale indotta dai lieviti commerciali sia ridurre il rischio di alterazioni microbiche legato alla fermentazione spontanea.
Linea di ricerca
sviluppo ed impiego su scala aziendale di un protocollo innovativo per la fermentazione naturale di vini ottenuti da uve a bacca rosse
Numerosi produttori, nell’ottica di un vino naturale, conducono le fermentazioni dei mosti d’uva in modo spontaneo. La fermentazione spontanea è caratterizzata dallo sviluppo in combinazione e/o successione di varie specie di lieviti naturalmente provenienti dalle uve e/o dall’ambiente di cantina. All’inizio del processo fermentativo, la concentrazione di etanolo è bassa (2 – 8 % v/v EtOH) e i lieviti non appartenenti al genere Saccharomyces (Hanseniaspora guilliermondii, Kloeckera apiculata e Candida stellata) possono dominare tale processo, per poi essere sostituiti da lieviti Saccharomyces (S. cerevisiae, S. bayanus), in grado di portare a termine la fermentazione degli zuccheri, in quanto dotati di un elevato potere alcoligeno. Tuttavia, l’elevata biodiversità inter- e intraspecifica dei lieviti agenti nel processo fermentativo spontaneo, se da un lato può tradursi in complessità del prodotto finale, dall’altro può dare origine a numerosi problemi riguardanti sia l’andamento della fermentazione che la qualità del fermentato.
Dunque la messa a punto di protocolli innovativi in grado di favorire la selezione e lo sviluppo, in fermentazione, di specie di lieviti in grado di assicurare spontaneamente le condizioni ottimali del processo risulta vantaggioso in termini di qualità, variabilità e tipicità del prodotto finale.
Obiettivi dell’uso del pied cuve fortificato come metodo innovativo per avviare la fermentazione alcolica spontanea
Il progetto si colloca nell’ambito di una ricerca volta alla valorizzazione ed alla diffusione di pratiche enologiche basate su un ridotto uso di coadiuvanti tecnologici e in particolare sull’impiego di fermentazioni alcoliche (FA) spontanee “gestite” in modo tale eliminare e/o ridurre l’uso delle colture microbiche selezionate commerciali. I campioni prelevati durante il processo di trasformazione sono stati analizzati presso i laboratori di Microbiologia Agraria del Dipartimento Scienze Agrarie e Forestali (SAF) dell’Università degli Studi di Palermo. Il presente lavoro è stato concepito ed eseguito per valutare la biodiversità microbica delle popolazioni di lieviti e di batteri lattici e dei principali parametri chimico-fisici, relativi a dei processi innovativi di vinificazione dell’Aglianico di Taurasi, dalla raccolta all’imbottigliamento. Lo scopo finale è stato quello di validare l’applicabilità tecnologica, sia su base microbiologica che chimico-fisica, di un processo di fermentazione spontanea ma “gestito” mediante l’uso di pied de cuve alcolizzati, ad oggi mai messo in atto nell’areale di produzione dell’Aglianico di Taurasi.
Conclusioni delle attività progettuali
Il presente lavoro ha fornito una panoramica sull’ecologia microbica dei vini prodotti utilizzando il pied cuve fortificato. L’aggiunta di etanolo nel pied de cuve, prima dell’inizio della FA spontanea, potrebbe favorire lo sviluppo di una grande diversità di ceppi di S. cerevisiae autoctoni durante l’intero processo di vinificazione. Allo stesso tempo, l’elevata biodiversità a livello di ceppo della popolazione di S. cerevisiae, così come la sua variabilità annua, potrebbero influenzare positivamente la qualità finale del vino.
Tutti i parametri chimici convenzionali dei vini sperimentali erano in accordo con quanto riportato dai disciplinari di produzione del vino ai fini commerciali, così come non sono mai stati rilevati odori sgradevoli indesiderati e aromi anomali. I dati ottenuti dall’analisi sensoriale hanno inoltre mostrato che i vini prodotti con il PdCF, in particolare quelli della tesi A, risultavano essere caratterizzati da punteggi più alti in termini di complessità e intensità sensoriale. Così, un’aggiunta di vino al mosto sino 1,5% (v/v) di etanolo è indicata per la preparazione del pied de cuve.
ALTRE INFORMAZIONI GENERALI
Evoluzione dei lieviti enologici nella fermentazione spontanea di mosti d’uva
La vinificazione spontanea dei mosti d’uva consiste nel lasciare che la fermentazione degli zuccheri presenti nel mosto avvenga ad opera dei lieviti indigeni, naturalmente associati alla materia prima e trasferiti nel mosto con la pigiatura delle uve e/o presenti nell’ambiente di cantina (Vincenzini, Buscioni, 2006). Molti enologi pensano che la fermentazione spontanea consenta di produrre un vino con caratteristiche sensoriali e gustative superiori rispetto ad una fermentazione condotta con lieviti selezionati. Per contro, altri pensano che l’uso di lieviti selezionati consenta di evitare potenziali effetti indesiderabili e quindi fornisca garanzie nella conduzione della fermentazione, e di conseguenza migliore qualità del vino. Ovviamente vini eccellenti come mediocri possono essere prodotti in entrambe le maniere. La valutazione di quei fattori che, nei due tipi di fermentazione, contribuiscono all’aroma e alla qualità del vino è una delle più avvincenti sfide dell’enologia sperimentale. La fermentazione spontanea è un processo che avviene in due stadi, legati a distinte classi di lieviti, tuttavia quando si osserva la flora blastomicetica di mosti in fermentazione, ci si accorge che questa cambia con il procedere del processo fermentativo (Comi, Traldi, 1982; Delfini, 1995; Zambonelli, 2005). La prima fase vede l’attività dei lieviti, arrivati dal vigneto in cantina e la fermentazione dovuta a questi lieviti denominati “lieviti indigeni” è una fase transitoria che dura alcuni giorni, ma è considerata da molti enologi importante per la sintesi e il rilascio da parte dei lieviti di importanti componenti sensoriali. I lieviti che sono coinvolti nella produzione del vino o meglio che si sviluppano nel mosto appena ottenuto dalla pigiatura delle uve, sono molti e di diverse specie. Hanno diverse caratteristiche e proprietà; non tutti sopravvivono alle condizioni che si vanno modificando durante la fermentazione e non tutti operano trasformazioni favorevoli alla qualità del vino, ma tutti danno il loro contributo al risultato finale (Paronetto, 2009). Uve mature e sane possono essere portatrici di un gran numero di specie di lieviti, alcune dotate esclusivamente di metabolismo ossidativo e altre dotate anche di capacità fermentativa. Al primo stadio fermentativo segue una seconda fermentazione, condotta dai lieviti vinari propriamente detti, che prende progressivamente il sopravvento sulla fermentazione dei “lieviti dell’uva”. In circostanze normali la fermentazione dei lieviti vinaria, cioè la vera e propria fermentazione alcolica, continua finché praticamente tutti gli zuccheri non sono trasformati in alcool. Durante i primi giorni di fermentazione i lieviti apiculati rappresentano la parte più rilevante della popolazione blastomicetica in quanto sono caratterizzati da una elevata rapidità di crescita e sono in grado di produrre composti odorosi spesso non desiderati. Questi apiculati non producono grandi quantità di alcool, ma sintetizzano un ampio spettro di sostanze che influenzano i profumi ed anche il gusto del vino. Fra questi composti risultano rilevanti gli esteri, alcoli superiori, acidi organici, etc., prodotti in quantità notevolmente superiori rispetto a quelle prodotte dai lieviti vinari durante la seconda fase della fermentazione. I lieviti dei generi Kloeckera, Hanseniaspora uvarum e Candida predominano nelle prime fasi, seguiti da diverse specie di Metschnikowia e Pichia e, a volte, di Issatchenkia e Kluyveromyces nelle fasi centrali, quando la concentrazione dell’etanolo arriva al 3–4 % (v/v), (Fleet e Heard, 1993). In questa fase, queste specie di lievito hanno utilizzato parte degli zuccheri e degli amminoacidi presenti nel mosto, in quantità sufficienti per produrre una serie di composti secondari, che influenzano fortemente la qualità finale del vino. I lieviti non-Saccharomyces contribuiscono in maniera significativa alla fermentazione, dal momento che essi raggiungono popolazioni superiori a 106-107 cellule/mL (Fleet et al., 1984; Heard e Fleet, 1986). Si pensa che queste alte popolazioni influenzino la composizione del vino così come lo sviluppo di Saccharomyces, dal momento che i cambiamenti chimici del vino prodotti dai non-Saccharomyces influenzano sia la cinetica di crescita che il metabolismo dei Saccharomyces (Lema et al., 1996). Fortunatamente sono lieviti poco resistenti all’alcool e vengono drasticamente ridimensionati nel numero e nella loro attività quando il mosto supera i 4 gradi alcolici. Una conseguenza molto spesso trascurata del loro sviluppo ancorchè momentaneo, è l’impoverimento del mezzo di sostanze azotate e di vitamine utilizzate per la loro crescita, sottraendo così ai lieviti Saccharomyces importante materiale energetico. Tuttavia, con l’aumento della concentrazione alcolica nel mosto in fermentazione, prendono il sopravvento i lieviti Saccharomyces, generalmente dotati di un maggiore potere alcoligeno i quali sono in grado di portare a termine il processo fermentativo (Amerine et al., 1982; Lafon-Lafourcade, 1983; Querol et al., 1990). A questo gruppo appartengono i Saccharomyces cerevisiae e Saccharomyces bayanus. Nella tradizione enologica il S. cerevisiae conduce la fermentazione e il S. bayanus, che è più resistente all’alcool, la termina. Tuttavia, gli stessi lieviti apiculati hanno dimostrato, in alcuni casi, di sostenere da soli e in modo soddisfacente la vinificazione (Garoglio, 1981). Inoltre, basse temperature di fermentazione (10-15°C) sono considerate favorevoli ad uno sviluppo preferenziale dei lieviti apiculati, in particolare, incrementano la tolleranza all’etanolo di Hanseniaspora spp. e Candida spp., al punto che questi lieviti non scompaiono e diventano specie dominanti accanto a S. cerevisiae per un tempo più lungo (Heard e Fleet, 1988; Erten, 2002). Oltre a S. cerevisiae, poche altre specie hanno la possibilità di intervenire nelle ultime fasi della fermentazione e in quelle centrali, in quanto dotate di un discreto potere alcoligeno; si tratta di Torulaspora delbrueckii e Zygosaccharomyces bailii che occasionalmente possono anche sostituire S. cerevisiae e di varie specie del genere Schizosaccharomyces (pombe, japonicus). Altri lieviti non rari, ma il cui intervento è spesso marginale, sono rappresentati da Saccharomycodes ludwigii e Metschnikowia pulcherrima e alcune specie del genere Brettanomyces. Al termine della fermentazione poi, se non viene impedito in qualche modo il contatto con l’aria atmosferica, è inevitabile lo sviluppo dei lieviti della fioretta, rappresentati principalmente da Pichia membranaefaciens, Candida vini e Hansenula anomala. Questi, come è ben noto, sono privi di attività fermentativa, formano veli superficiali spessi e fragili, si moltiplicano respirando l’alcool etilico e provocano una netta diminuzione del grado alcolico. Tuttavia, le possibili varianti, soprattutto in termini quantitativi, al quadro microbiologico sopra delineato sono innumerevoli in quanto lo sviluppo e l’attività di ogni specie dipendono da numerosi fattori di natura chimica, fisica e biologica, tra loro interattivi. Tra di essi, un ruolo di primaria importanza è svolto dall’ossigeno. E’ dunque facile intuire che la tipologia delle specie presenti e la loro abbondanza relativa all’inizio del processo fermentativo, la cinetica di crescita, l’entità dello sviluppo e la persistenza di ciascuna popolazione, grazie alle peculiarità metaboliche che in prima istanza possono essere considerate specie-specifiche, siano tutti elementi in grado di incidere anche fortemente sulle caratteristiche organolettiche del prodotto finale, migliorandone o peggiorandone la qualità (Lambrechts e Pretorius, 2000). La vinificazione spontanea, malgrado l’evidente imprevedibilità del suo esito finale e il rischio dell’insorgenza di problemi di natura microbiologica, è oggi ancora assai diffusa, specialmente in Italia e in particolare nella produzione di alcuni vini di pregio. I sostenitori della vinificazione spontanea attribuiscono ai prodotti ottenuti per tale via una forte distinzione stilistica, frutto di una maggiore complessità di aroma, gusto e struttura, rispetto ai prodotti ottenuti mediante inoculo di ceppi selezionati, che, viceversa, sarebbero responsabili di un “effetto appiattimento” delle differenze (Pretorius, 2000). La maggiore complessità dei vini ottenuti attraverso la vinificazione spontanea sarebbe direttamente correlata con la natura stessa del processo, avviato e portato a termine grazie all’azione combinata e/o in successione dei lieviti indigeni, tra loro diversi a livello di specie e, all’interno della stessa specie, a livello di ceppo, ciascuno, comunque dotato di una propria impronta qualitativa trasferibile al prodotto finale in proporzione al peso dell’azione svolta nel processo fermentativo (Lambrechts e Pretorius, 2000). Numerosi studi sono stati effettuati comparando le fermentazioni spontanee e le fermentazioni guidate, e hanno messo in evidenza che vi sono differenze significative circa la composizione chimica del vino risultante (Mora et al., 1990; Longo et al., 1992; Gafner et al., 1993; Lema et al., 1996). Diversi autori hanno dimostrato che l’uso dei lieviti commerciali nel vino può ridurre la produzione di alcuni componenti metabolici desiderati come gli alcoli superiori, l’isoamilacetato e l’etilacetato che si ritroverebbero, invece, in adeguata quantità nei vini fermentati spontaneamente (Wucherpfennig e Bretthauer, 1970; Sponholz e Dittrich, 1974; Mateo et al.,1991). Pertanto, sebbene l’inoculo sia raccomandato nei moderni ed industriali stabilimenti di produzione del vino, vi è ancora qualche perplessità circa la mancanza di alcuni caratteri desiderabili delle naturali o spontanee fermentazioni (Fleet e Heard, 1993). Inoltre non bisogna dimenticare che la dinamica dei vari ceppi di S. cerevisiae, durante la fermentazione alcolica spontanea, contribuisce in modo significativo alla composizione chimica e alle caratteristiche sensoriali del vino prodotto (Lurton, 1995). Sulla base di questi studi, ancora oggi molti produttori di vino, per l’elevata qualità dei loro prodotti, sono disposti ad accettare i “rischi” legati alle fermentazioni spontanee allo scopo di raggiungere una distinzione stilistica ed una variabilità dei vini. Comunque la realizzazione di caratteri stilistici e il contributo, individuale e collettivo, dei lieviti al vino è abbastanza variabile. Il risultato della fermentazione spontanea dipende non solo dal numero e dalla diversità dei lieviti presenti nel mosto, ma anche dalla composizione chimica dell’uva e dalla tecnologia di produzione. L’effetto combinato di tali fattori introduce un certo livello di variabilità nell’ecologia della vinificazione, che può tradursi in variabilità biochimica del processo con variabilità di effetti sulle proprietà sensoriali di un vino e, quindi, sulla sua qualità (Romano, 2002; Romano et al., 2003b; Fleet, 2003).
Fermentazione spontanea e fermentazione in purezza di mosti d’uva
La FA è guidata principalmente a livello industriale da colture starter commerciali che vengono inoculate direttamente nel mosto. Questo metodo assicura l’inizio della FA poichè i lieviti selezionati aggiunti, permettono di raggiungere rapidamente elevati livelli di concentrazione e dominare sulla popolazione microbica durante l’intero processo di vinificazione. Questo metodo, riduce notevolmente il rischio di ottenere vini dall’aroma alterato. Allo stesso tempo, l’uso degli stessi starter per fermentare i mosti, ottenuti da vitigni diversi e/o da diverse aree geografiche, è abbastanza controverso a causa della loro massiccia prevalenza sulla microflora nativa (Valero et al. 2005). In questo caso, infatti, non può essere escluso il rischio di un’eccessiva standardizzazione dei profili sensoriali dei vini finali. Negli ultimi anni, oltre alle colture starter, sono stati oggetto di numerosi studi i lieviti selezionati da popolazioni indigene (Tofalo et al., 2009, Francesca et al. 2010 Tofalo et al. 2014), al fine di mantenere una certa tipicità dei vini. Un dato ceppo di lievito può essere adattato ad una specifica condizione climatica (Esteve-Zarzoso et al. 2000), nonché all’ambiente dove avviene la vinificazione (Guzzon et al. 2011, Francesca et al. in press). Anche se l’uso di ceppi autoctoni selezionati potrebbe contribuire in modo significativo all’espressione delle caratteristiche varietali dei vini (Jolly et al., 2006, Zott et al. 2008), la composizione delle comunità microbiche autoctone dell’uva in termine di specie e/o ceppo può cambiare durante le diverse annate (Fleet, 2008). Per questi motivi, la diversità microbica di un processo di fermentazione, svolto da starter commerciali o autoctoni, non rappresenta la complessità e la variabilità delle popolazioni microbiche che caratterizzano la FA spontanea. Quest’ultimo, è un processo microbiologico eterogeneo che coinvolge la successione di diverse specie non-Saccharomyces e S. cerevisiae. Inoltre, durante la FA spontanea, diversi ceppi di S. cerevisiae potrebbero essere presenti nel mosto ad elevate concentrazioni. Questa diversità microbica influenza notevolmente le caratteristiche sensoriale del prodotto finito.
Negli ultimi anni, la richiesta di vini con profili sensoriali tipici è aumentata notevolmente e, di conseguenza è aumento il numero di cantine che producono vini mediante FA spontanea. Diversi studi hanno dimostrato che i vini ottenuti dalla FA spontanea sono caratterizzati da una complessità aromatica e gustativa superiore a quelli prodotti con lieviti selezionati (Di Maio et al. 2012, Romano et al. 2003). Di contro, il rischio di generare odori anomali e aromi alterati è elevato. La FA spontanea è ancora riconosciuta come un processo biologico incontrollato durante il quale molti ceppi di lieviti e/o batteri potrebbero aumentare rapidamente in concentrazioni ed incidere negativamente sulla qualità dei prodotti finali. A tal proposito, al fine di promuovere la crescita di lieviti con buone attitudini enologiche, alcune cantine tradizionali producono vini utilizzando il metodo “pied de cuve” (Ubeda Iranzo et al., 2000, Clavijo et al. 2011, Li et al. 2012). Questa tecnica si basa sull’inoculazione di un mosto parzialmente fermentato, in un nuovo mosto. Di solito, quando il pied de cuve fermentato raggiunge la concentrazione di etanolo di circa il 5% (v/v), viene aggiunto al mosto con un rapporto pied de cuve/nuovo mosto di 1:10. Generalmente, il pied de cuve viene inoculato con starter commerciale, al fine di avviare la FA. Così, il metodo pied de cuve ricorre a cellule di lievito vitali da una FA, per avviare positivamente una nuova fermentazione. In questo modo, la quantità di inoculo starter è ridotto e, nel complesso, è possibile trasferire caratteristiche enologiche desiderabili di ceppi di lievito da una fermentazione di successo a un nuovo mosto (Li et al. 2012). In caso di FA spontanea, l’uso del pied de cuve potrebbe limitare, ma non esclude, i rischi (cioè, la crescita di microrganismi deterioranti, blocco della FA, formazione di aromi sgradevoli, ecc.) della vinificazione naturale effettuata senza colture starter. Diverse specie di lievito che normalmente iniziano a fermentare il mosto di uve in condizioni non controllate non tollerano l’etanolo.
Pied de cuve e metodo super-quattro
Il pied de cuve rappresenta una tecnica enologica in grado di realizzare in una determinata massa di mosto, generalmente dal volume ridotto, una fermentazione alcolica con un ceppo di lievito opportunamente inoculato o con ceppi di lieviti indigeni, naturalmente presenti nel mosto. Tale pratica di cantina ha lo scopo di “coltivare” una popolazione di lieviti in una determinata massa di mosto fino a raggiungere elevate concentrazioni microbiche, inoculare tale massa in un mosto di volume superiore e avviare così una fermentazione alcolica in cui il pied de cuve rappresenta l’inoculo dei lieviti (sottoforma di mosto in fermentazione). Questo metodo permette di avere a disposizione una grande quantità di cellule attive in grado di far iniziare prontamente la fermentazione e di risparmiare sui costi di gestione in quanto le quantità di lievito vengono prodotte nella propria cantina. Per l’esecuzione di un pied de cuve occorrono attrezzature di cantina adeguate, ma soprattutto una corretta igiene della cantina stessa (Paronetto, 2009).
I lieviti che per primi partecipano alla fermentazione dei mosti, vale a dire gli apiculati ed altri di scarso valore enologico, sono molto sensibili all’alcool e vengono inibiti quando nei mosti si raggiungono i quattro gradi alcolici. La preparazione del pied de cuve attraverso l’aggiunta di alcol nel mosto di partenza viene definito metodo super-quattro e consiste nel mantenere il grado alcolico del materiale in fermentazione a livelli sempre superiori a quattro gradi alcolici. Con il metodo super-quattro si ottiene il duplice risultato di impedire l’attività dei lieviti con bassa tolleranza all’etanolo e di favorire l’attività dei S. cerevisiae.
Tale metodo può essere funzionale alla riduzione della quantità di anidride solforosa aggiunta nei mosti in fase pre-fermentativa in quanto si ottiene ugualmente il risultato di inibire tutti i lieviti non buoni senza la necessità di ricorrere ad altri accorgimenti; si tratta, in definitiva, di usare come agente di selezione sui lieviti l’alcool al posto dell’anidride solforosa. L’applicazione del metodo super-quattro nella vinificazione in discontinuo si può lavorare, come descrive Bousse nel 1952 e Ribéreau-Gayon e Peynaud nel 1961, riempiendo le vasche di fermentazione non in una sola volta, ma per tappe successive nel corso della giornata in funzione delle quantità di alcol da apportare (Zambonelli, 2006).
Palermo 27 giugno 2017 Nicola Francesca