Miseria e Nobiltà – I beni e le attività in Italia
Pellegrino Artusi, uno tra i maggiori intellettuali dell’Italia unita, avvicinò la vicenda del suo diffusissimo manuale di cucina alla storia della “Cenerentola”, tanto esso era stato avversato, più che ignorato, da improvvidi editori e dileggiato dai primi distratti lettori. E’ noto come poi La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, pubblicato per la prima volta nel 1891 in mille copie a spese dell’autore, sia divenuto il maggior best seller di ogni tempo tra i volumi di autore italiano, senza mai invecchiare e reggendo al confronto con una trattatistica specifica sempre più competente e agguerrita.
Il volume dell’Artusi non ebbe tanto e solo il merito di diffondere tra un numero sempre più ampio di famiglie nozioni di igiene domestica e di conoscenza nutrizionale oltre, naturalmente, a raffinate proposte di buon gusto. Fu piuttosto uno strumento, la cui enorme efficacia è in gran parte da studiare, ma concretamente determinante per la creazione di un’identità nazionale che, dopo le imprese risorgimentali, presentava confini labili e incerta sostanza.
Di certo riuscì nell’impresa grazie alla diffusione della lingua, in un momento in cui essa era parlata e capita da poco più del 2% degli abitanti e gli emigrati calabresi e veneti in America preferivano comunicare fra di loro in “broccolino” piuttosto che in italiano. Secondo molti avveduti commentatori seppe contribuire alla propagazione della lingua nazionale addirittura più e meglio del Manzoni coi suoi Promessi sposi, anche perché non sempre si legge ma si mangia…tutti i giorni!
Ma ancor più seppe porsi come modello e guida per la classe media italiana, che andava acquisendo un ruolo crescente nella dirigenza del paese, operando una felicissima sintesi tra le numerose e diverse culture regionali che, per confluire nella cucina, provenivano da ogni campo dell’esperienza umana, avendo poi attraversato ogni genere di vicissitudine e di contaminazione.
Al giorno d’oggi la cultura della cucina e della tavola, anche grazie al baffuto banchiere-gastronomo di Forlimpopoli-Firenze, è fortunatamente tutt’altro che ridotta al rango di “Cenerentola”. Rappresenta gran parte della nostra economia, è ricercatissima dall’editoria, invade allegramente le televisioni e la stampa, non più solo quella specializzata e riceve dalla politica, anche in questa fase di acuta crisi, un’attenzione che se non è ottimale è comunque cospicua.
Ridotta invece al ruolo di negletta figliastra è oggi, purtroppo, la sorella maggiore: la cultura delle arti, che vede i suoi templi, i musei e i teatri, sempre più trascurati e obbligati a vivere pericolosamente, sull’orlo di un abisso, questo difficile periodo, peraltro in carenza di prospettive, senza cioè che si presenti all’orizzonte un “Principe azzurro” in grado di salvarla. Basterà cercare di ricordare, senza riuscirci, i nomi dei vari ministri della cultura che si sono susseguiti nei decenni, a parte Antonio Paolucci, un tecnico prestato alla politica per poco tempo.
Noi italiani che siamo stati per la maggior parte dei secoli passati i principali creatori della bellezza, perseguita in ogni occasione e con determinazione quasi morbosa a ogni livello e che siamo per questo oggi depositari di un patrimonio che non ha eguali al mondo, non possiamo che essere costernati a fronte di una situazione che continua a minacciare la dignità stessa di questo passato illustre.
Alla scarsa dotazione finanziaria, che è sempre stata inadeguata ma che sta diventando inesistente, si unisce l’incapacità dei vari soggetti pubblici, proprietari e responsabili del nostro patrimonio, a collegarsi per fare sistema e privilegiare, a seconda delle rispettive potenzialità nei diversi contesti, quello che meglio può provvedere alla tutela e alla valorizzazione dei beni e delle strutture dove vengono conservati e magari esposti, proseguendo a vantare sterili primogeniture e a lasciare campo libero a una burocrazia che, se può vantare innegabili meriti storici davanti a passate aggressioni della politica e della società, oggi appare sempre più confinata in posizioni di pura difesa di un ruolo ormai svuotato di contenuti e, peggio ancora, prospettive.
Eppure nulla è cambiato da quando, qualche decennio fa, si iniziò a considerare il patrimonio culturale non tanto un privilegio di pochi esteti e non solo un peso per le esigenze continue di conservazione che manifestava, ma un “giacimento” sterminato di preziose opportunità di ricchezza, prima conoscitiva e morale, ma anche concretamente vantaggioso dal punto di vista economico.
Però è proprio in un periodo di crisi come quello attuale che non ci possiamo permettere di rinunciare alle possibilità che ci sono date e di promuovere tutte le necessarie sinergie tra i vari livelli del potere pubblico, in Italia e in Europa, incentivando necessariamente e concretamente i privati con agevolazioni fiscali certe e con la attivazione di servizi complementari, rispetto ai quali nessun paese è refrattario come il nostro, in virtù di un malcelato quanto ingiustificato snobismo.
Miseria e nobiltà, insomma. Come al solito.
Ma al di là dei risultati attesi sul piano finanziario, invertire la tendenza presente è doveroso dal punto di vista formativo e della crescita individuale. I musei, ma anche i teatri e le sale da concerto, sono i luoghi privilegiati della nostra memoria e della nostra appartenenza. Le opere d’arte custodite nei luoghi dove i membri di una comunità sono nati o dove hanno consapevolmente scelto di vivere, sono i principali veicoli della nostra storia e quindi del nostro presente.
Questi tesori devono ritornare i principali riferimenti del nostro orgoglio municipale che non è più accettabile di vedere espresso soltanto attraverso la partecipazione a competizioni sportive, sia pure di alto livello.
E non dimentichiamo, infine, le moderne tecnologie, in costante e vertiginoso aggiornamento, che possono per tanti aspetti semplificare ed anche arricchire la proposta museale, contribuendo anche loro a creare un circuito virtuoso dal punto di vista economico attraverso l’offerta che se ne può fare a un pubblico, in specie giovanile, sempre più conquistato dall’elettronica, ma anche verso quella irrinunciabile meta del recupero di un valore identitario che oggi langue e che proprio per questo va nutrito di conoscenza e di bellezza.
Mauro Civai