Kant, Critica della ragion pura della ragion pratica del giudizio

16 Gennaio 2012 by

CRITICA DELLA RAGION PURA

Kant è stato definito un “Giano bifronte”: è una grande personalità che vive a cavallo tra la civiltà del- l’Illuminismo e quella del Romanticismo. Si può considerare il più conseguente degli illuministi, ma nello stesso tempo apre le prospettive dell’età successiva. Kant, dunque, filosofo dal duplice aspetto. Qual era la caratteristica dell’Illuminismo che Kant riprende ed esalta? La fiducia nella razionalità. Kant porta questa fiducia all’estremo, nel senso che la ragione, dopo avere giudicato con l’Illuminismo la storia, la religione, l’autorità della tradizione, i miti, le credenze dei popoli, adesso sottopone anche se stessa a giudizio. LaCritica della ragion pura è una sorta di tribunale in cui il giudice delle capacità conoscitive dell’uomo è la razionalità stessa. Con Kant la ragione impera sovrana: non viene riconosciuto alcun giudice superiore alla ragione stessa, e la ragione non si sottopone ad alcun altro tribunale, che a quello in cui giudice è essa stessa. Non c’è un’autorità superiore. L’Illuminismo, però, aveva inteso per “ragione” qualche cosa che già in Kant viene problematizzato, e che verrà poi superato dai suoi successori idealisti. L’Illuminismo, pur divinizzandola, aveva avuto della ragione una concezione in fondo abbastanza ristretta. Infatti la ragione illuministica si limita alla conoscenza del mondo finito. La manifestazione più emblematica della razionalità illuministica è l’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, in cui tutto lo scibile umano è raggruppato pezzo per pezzo, frammento per frammento: alla lettera A succede la lettera B, poi la lettera C, e così via, ma questo dà l’idea di un sapere disgregato, frantumato, che viene messo insieme in maniera puramente sommatoria. La massima impresa illuministica, l’Enciclopedia, consiste nel mettere assieme l’immagine del mondo come un mosaico con tante tessere; il mondo è concepito dagli illuministi come composto di tante entità separate, di tante entità finite, limitate. Che cosa voglio dire con questo? L’Illuminismo aveva dato per scontato che la ragione non si può avventurare in campi come l’assoluto, la metafisica: non c’è una metafisica dell’Illuminismo; la ragione illuministica si applica esclusivamente al finito. Kant è un grandissimo illuminista, ma va anche oltre l’Illuminismo perché (a parte quanto vedremo nellaCritica della ragion pratica e quanto potremo accennare della Critica del giudizio, in cui si apre decisamente la strada alla visione romantica del mondo) già nella Critica della ragion pura tocca il problema metafisico, che era stato trascurato dall’Illuminismo. La nuova filosofia di Kant, che viene chiamata ‘criticismo’, si confronta con la metafisica, e anche se Kant riconoscerà che per le vie tradizionali il discorso metafisico non si può affrontare, in fondo aprirà una strada diversa per tentare un discorso su Dio, sull’anima, sul mondo, quindi sui grandi oggetti della metafisica.
“Criticismo” significa bilancio critico delle facoltà conoscitive umane. Col criticismo kantiano l’Illuminismo raggiunge il suo culmine e viene superato, ma raggiunge il suo culmine anche la filosofia moderna nella sua interezza, che aveva avuto il momento di massima accelerazione con Cartesio. Già con Campanella, ma con Cartesio in maniera più decisa, l’attenzione della filosofia si era spostata dal mondo, dall’oggetto, al soggetto della conoscenza, all’uomo e alle sue strutture conoscitive. Questo era stato vero per il razionalismo, ma era stato vero in gran parte anche per l’empirismo, la cui opera maggiore è il Saggio sull’intelletto umano di Locke, che segnala già nel titolo un’attenzione alle facoltà conoscitive umane. Lo spostamento dell’attenzione, del baricentro della filosofia dal mondo oggettivo alle strutture del soggetto raggiunge l’apice nel criticismo kantiano. Kant conclude la filosofia moderna e apre quella contemporanea con un discorso sulle facoltà conoscitive dell’uomo.
Questo discorso sboccia a un certo punto della biografia di Kant (1724-1804). Con la dissertazione De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis, con cui Kant si presenta nel 1770 alla carriera accademica, carriera che per lui inizia abbastanza tardivamente, si afferma una svolta del suo pensiero e di tutto il pensiero europeo. Nasce il criticismo che implica un profondo riesame delle filosofie precedenti e un bilancio delle facoltà conoscitive umane quali erano state identificate dalla filosofia dei secoli precedenti.
La filosofia del Seicento e del Settecento si era concretizzata nei due filoni dell’empirismo e del razionalismo. Kant, in due momenti successivi della sua stessa vita di studioso, è prima razionalista, poi empirista: in un primo momento aderisce al razionalismo nella forma tedesca, nella forma wolffiana e leibniziana, poi la lettura di Hume, del grande empirista inglese, lo risveglia dal “sonno dogmatico”, dall’adesione al razionalismo, e lo convince del fatto che la conoscenza ha sempre a che fare prima di tutto con l’esperienza sensibile. Nella formazione di Kant entrano dunque sia il razionalismo, sia l’empirismo. Kant si confronta con i due secoli che lo hanno preceduto, superandoli. Per questo è importante, nella esposizione del pensiero di Kant, partire dalle critiche che egli rivolge all’empirismo e al razionalismo: il vero punto di vista del criticismo kantiano non si può cogliere se non come superamento delle due scuole di pensiero precedenti, che, una per un verso, l’altra per l’altro, avevano portato a una crisi, a uno scacco del metodo filosofico e del metodo scientifico.
Per quanto riguarda l’empirismo, è noto che Hume stesso aveva dovuto fare confessione di scetticismo. L’empirismo, che vuole fondarsi sulla conoscenza sensibile, sulla conoscenza delle cose materiali per la via che sembra più concreta, paradossalmente era andato a sfociare nello scetticismo. Questo si può capire agevolmente: se mi affido alla conoscenza sensibile è chiaro che non riuscirò mai ad arrivare a una conoscenza che sia universale e necessaria, sarò sempre costretto a riferirmi a qualche cosa di estremamente limitato e, in fondo, alla mia stessa esperienza personale. Affidarsi ai sensi sembra un punto di forza, in realtà è fonte di estrema debolezza. Hume con la critica dell’idea di causalità aveva sgretolato le basi stesse della scienza; la scienza si fonda sul principio di causalità e sull’aspirazione ad arrivare ad affermazioni che siano valide per tutti e in ogni tempo (universali e necessarie). È evidente che tali affermazioni devono essere di una solidità ben diversa da quella che può essere fondata sui sensi, variabili da individuo a individuo. L’empirismo portava a un naufragio della scienza, a non poter affermare niente di sicuro, niente di universale. Addirittura Hume giunge  a dire che soltanto affidandosi al buon senso si può dire che domani sorgerà il sole. Dalla prospettiva dell’empirismo non si può avanzare nessuna previsione sui fenomeni futuri, ma la scienza invece pretende proprio questo, di giungere a leggi universali, necessarie, che ci permettano di predire anche come andranno i fenomeni domani e dopodomani, oltre a sapere come sono andati oggi e ieri.
Il razionalismo era arrivato a uno scacco di carattere diverso, ma ugualmente dannoso per la scienza: con il suo metodo del tutto opposto, fondato sulle conoscenze a priori, non riusciva a spiegare come si può operare il salto dalle costruzioni a priori della mente al mondo a posteriori dell’esperienza. Esso si poneva su un piano di universalità, ma di un’universalità astratta. Se l’empirismo portava allo scetticismo, il razionalismo riusciva a conseguire universalità, ma un’universalità non accettabile da parte della scienza, perché consistente in costruzioni a priori, non verificabili nell’esperienza stessa. Il razionalismo si irrigidiva nel “dogmatismo”, nella pretesa di validità (non dimostrata) delle deduzioni a priori. Nella seconda metà del Settecento, di fronte alla crisi di queste due scuole di pensiero, si erige la figura di Kant, il quale, nella Critica della ragion pura, demolisce e supera empirismo e razionalismo.
Intorno a che cosa si appunta la critica di Kant? Il conoscere, dice Kant, è giudicare: si ha una conoscenza quando si collega un soggetto con un predicato. Il giudizio è appunto unione di un soggetto con un predicato. La conoscenza scientifica consiste in una concatenazione di termini. La più elementare concatenazione di termini è il giudizio. Kant, analizzando come funzionano i giudizi nell’empirismo e nel razionalismo, ne riesce a mettere in rilievo la debolezza. L’empirismo, col suo metodo induttivo, cioè col metodo che va dal particolare all’universale, e si fonda sui sensi, dava luogo a giudizi sintetici a posteriori. Che cosa sono i giudizi sintetici a posteriori? Sarà più facile capirlo ricorrendo a un esempio: «Il corpo è pesante». Perché questo giudizio è sintetico? Perché nel concetto di corpo non è implicita necessariamente la pesantezza, quindi soltanto verificando coi sensi la pesantezza del corpo si può dire che esso è pesante; e dire «il corpo è pesante» vuol dire sintetizzare, unire –sintesi in greco significa unione – due termini, “corpo” e “pesantezza”, che di per sé sono distinti. Questo giudizio è sintetico e, nello stesso tempo, è a posteriori. Perché soltanto dopo – a posteriori, dal latino “postea” – che ho fatto la verifica sensibile della pesantezza del corpo, posso dire che il corpo è pesante. Riepiloghiamo: il giudizio è sintetico perché unisce due termini non necessariamente collegati fra loro, ed è a posteriori perché lo posso enunciare soltanto dopo che l’ho verificato con i sensi. Questo tipo di giudizio presenta un vantaggio: èproduttivo di vera conoscenza in quanto il predicato mi dice qualche cosa di nuovo rispetto al soggetto, mi dà una conoscenza in più rispetto al soggetto. Un altro esempio di giudizio sintetico a posteriori potrebbe essere: «Il tavolo è verde». Nella nozione di tavolo non è implicito il fatto di essere verde. Che questo tavolo specifico sia verde lo posso dire soltanto dopo che l’ho visto, quindi a posteriori rispetto all’esperienza visiva, e unirò il verde, che è un concetto a sé stante, con quello di tavolo. Non sono due nozioni che si implicano reciprocamente, in maniera necessaria. Vengo pertanto a sapere qualche cosa di nuovo del tavolo quando dico che esso è verde: il giudizio sintetico a posteriori degli empiristi è produttivo. A fronte di questo vantaggio c’è però un elemento negativo: questo tipo di giudizio non riesce mai a pervenire all’universalità e alla necessità della scienza, in quanto è fondato sui sensi. I sensi sono sempre stati considerati in filosofia come qualche cosa di soggettivo nel senso negativo del termine, cioè di variabile da individuo a individuo. Questi giudizi, essendo fondati sui sensi, sono soggettivi, e quindi non possono aspirare alla universalità e alla necessità indispensabili per la scienza. Per riepilogare: i giudizi sintetici a posteriori hanno il vantaggio di essere produttivi, di ampliare la conoscenza, ma presentano lo svantaggio di non raggiungere l’universalità e la necessità.
Dall’altra parte il razionalismo, con il suo metodo deduttivo, per cui si parte da affermazioni universali e si cerca di arrivare a conoscenze più particolari, si fonda su giudizi analitici a priori. L’esempio che fa Kant nella Critica della ragion pura è: «Il corpo è esteso». Questo giudizio è tipico del razionalismo. Perché è un giudizio analitico a priori? È analitico in quanto analizzando – anche analizzare viene dal greco e significa “sciogliere nelle componenti” – sciogliendo il soggetto, “il corpo”, nelle sue componenti, ritrovo già necessariamente l’estensione. Lo sappiamo dal concetto di res extensa di Cartesio: non ci può essere un corpo che non sia esteso, al concetto di corpo è connaturato quello di estensione. Quindi, il giudizio: «Il corpo è esteso» è un giudizio analitico in quanto analizzando il soggetto ritrovo il predicato, ed è a priori perché non ho bisogno di verificare con i sensi l’estensione di un corpo: che un corpo è esteso lo posso sapere prima dell’esperienza sensibile per via di ragionamento, senza né vederlo né toccarlo. Il giudizio razionalistico presenta quindi questo vantaggio: è un giudizio assolutamente necessario. Visto che nel predicato non faccio altro che ripetere quello che è già presente nel soggetto, sono sicuro della verità, dell’assoluta necessità di quanto sto affermando. Conseguito però il vantaggio della necessità non mi ritrovo più quello della produttività, della estensione delle mie conoscenze. Il giudizio analitico è sterile, non è produttivo: quando ho detto che il corpo è esteso, non ho aggiunto una nuova conoscenza a quella che già avevo col concetto di corpo, ho semplicemente sottolineato un aspetto di questo soggetto che è il corpo, ma non ho fatto un passo in avanti nella conoscenza, sono rimasto al punto di partenza. I giudizi analitici a priori sono necessari, sono universali – devono essere riconosciuti da tutti – ma non ci danno nuove conoscenze. La scienza però tende a un accrescimento continuo di conoscenze. Anche il giudizio razionalistico quindi non serve ai fini scientifici.
Ora, Kant sostiene che esistono giudizi che sono sintetici e a priori insieme: riesce a unificare gli aspetti positivi del giudizio dell’empirismo e di quello del razionalismo identificando i giudizi sintetici a priori, i quali presentano tutti i vantaggi del giudizio empirico e di quello razionalistico senza averne gli svantaggi. I giudizi di Kant sono sintetici, quindi produttivi di conoscenza, ampliano il sapere, ma nello stesso tempo, essendo a priori, sonouniversali e necessari, quindi rispondono al canone scientifico dell’assolutezza e della necessità. Essi, quindi, raccolgono tutti gli aspetti positivi e respingono gli aspetti negativi dei tipi di giudizi dell’empirismo e del razionalismo.

EMPIRISMO
Metodo induttivo
Senso
A posteriori
Giudizi sintetici a posteriori
(estensivi, non universali)
RAZIONALISMO
Metodo deduttivo
Intelletto
A priori
Giudizi analitici a priori
(non estensivi, universali)
KANT: giudizi sintetici a priori (estensivi della conoscenza, universali)

Kant scrive: «In tutti i giudizi, in cui è pensato il rapporto di un soggetto col predicato, questo rapporto è possibile in due modi. O il predicato B appartiene al soggetto A come qualcosa che è contenuto (implicitamente) in questo concetto A; o B è del tutto fuori del concetto A, sebbene in connessione con esso. Nel primo caso chiamo il giudizio analitico, nel secondo sintetico. I giudizi analitici sono a priori. Infatti sarebbe assurdo fondare su l’esperienza un giudizio analitico, poiché io non ho affatto bisogno di uscire dal mio concetto per formare il giudizio, e di ricorrere quindi ad alcuna testimonianza dell’esperienza. Che un corpo sia esteso, è una proposizione che vale a priori, e non è un giudizio d’esperienza. Infatti, prima di rivolgermi all’esperienza, io ho tutte le condizioni del mio giudizio già nel concetto, dal quale posso trarre il predicato in virtù del principio di contraddizione, e acquistare nel tempo stesso coscienza della necessità del giudizio, che l’esperienza non potrebbe mai insegnarmiAl contrario, nel concetto di corpo in generale io non includo il predicato della pesantezza:  ma poiché quel concetto rappresenta pure un oggetto dell’esperienza mediante una parte di essa, io posso aggiungere a questa ancora altre parti della stessa esperienza, come appartenenti a quel concetto». Potrei dire cioè che il corpo è pesante, che il tavolo è verde, è rosso, è quadrato, rettangolare, ovale, è di marmo, è di legno, potrei aggiungere tantissimi predicati per via sintetica. «Posso prima conoscere il concetto di corpo analiticamente mediante le note dell’estensione, dell’impenetrabilità, della forma, ecc. [cioè le note, le caratteristiche intrinseche al concetto di corpo] che sono tutte pensate in questo concetto [sono già intrinseche]. Ma poi estendo la mia conoscenza, e rivolgendomi di nuovo all’esperienza, dalla quale ho tratto il concetto di corpo, trovo costantemente collegata con le note precedenti anche quella della pesantezza, e l’aggiungo quindi sinteticamente, come predicato, a quel concetto. Sull’esperienza dunque si fonda la possibilità della sintesi del predicato della pesantezza col concetto del corpo, perché i due concetti, sebbene l’uno non sia contenuto nell’altro, tuttavia, come parti di un medesimo tutto, cioè dell’esperienza, che è essa stessa una connessione sintetica d’intuizioni, convengono l’uno all’altro, benché solo in modo accidentale [non necessario]».
Così Kant ha tratteggiato le caratteristiche del giudizio analitico dei razionalisti e del giudizio sintetico degli empiristi. Ora, la posizione specifica di Kant si comincia a delineare nell’analisi del concetto di esperienza: «Non c’è dubbio che ogni nostra conoscenza comincia con l’esperienza; da nient’altro infatti la nostra facoltà conoscitiva potrebbe esser stimolata al suo esercizio [l’esperienza è solo uno stimolo per la conoscenza], se ciò non avvenisse per mezzo degli oggetti che colpiscono i nostri sensi e che, per un lato, danno origine da se stessi a rappresentazioni, per l’altro muovono l’attività del nostro intelletto a paragonare queste rappresentazioni, a riunirle o separarle, e ad elaborare così la materia grezza delle impressioni sensibili per formarne quella conoscenza degli oggetti, che si chiama esperienza. Nel tempo, dunque, nessuna conoscenza in noi precede l’esperienza, e tutte comincian con questa. – Ma sebbene ogni nostra conoscenza cominci con l’esperienza, non per questo essa deriva tutta dalla esperienza». Questo è il fatto decisivo, che distacca Kant dall’empirismo: la conoscenza inizia con l’esperienza, ma poi c’è l’apporto formale della ragione umana; la conoscenza quindi inizia con l’esperienza, ma non deriva tutta dall’esperienza: «Infatti la nostra conoscenza è un composto di ciò che noi riceviamo mediante le impressioni e di ciò che la nostra propria facoltà di conoscere trae da se stessa (non essendo che stimolata dalle impressioni sensibili)». Le impressioni sensibili sono semplicemente uno stimolo e non costituiscono l’essenza della conoscenza come negli empiristi. Quello che è importante è la forma che la nostra ragione dà a queste impressioni.
Come fa Kant a sostenere che esistono giudizi universali, necessari e insieme estensivi del sapere, cioè giudizi sintetici a priori? Per arrivare ad affermare questo, egli deve capovolgere le prospettive della conoscenza come erano state interpretate fino ai suoi tempi, deve dare luogo a quella che egli stesso ha definito “rivoluzione copernicana” della conoscenza. Di quale rivoluzione Copernico era stato portatore? Fino a lui si pensava che il movimento degli astri fosse oggettivo, dipendesse dagli astri stessi, invece Copernico afferma che il movimento degli astri non dipende dagli astri, dagli oggetti celesti, ma dal soggetto osservante: è il soggetto a muoversi e a proiettare nei cieli il movimento che è suo, sulla terra. Che cosa vuole dire questo paragone che Kant stesso istituisce con Copernico? Fino a Kant c’era stato un dogma – come Kant stesso dice – cioè una credenza non dimostrata: che il mondo fosse ordinato, che la natura, la realtà, avesse leggi, ordine in se stessa. L’uomo va alla ricerca, alla scoperta di queste leggi; ci può andare col metodo induttivo degli empiristi o col metodo deduttivo dei razionalisti, ma in ogni caso il soggetto sta di fronte al mondo e deve cercare in qualche modo di svelare quali sono le leggi del mondo. Con Kant, invece, la prospettiva è capovolta: il soggetto conoscente ha in sé meccanismi di funzionamento, leggi, forme, che proietta nell’oggetto conosciuto. Come, secondo il paragone, per Copernico l’uomo si muove con la terra e proietta questo movimento in un movimento che egli immagina sia degli astri, lo proietta all’esterno, nell’oggetto, negli astri, così per Kant l’uomo ha leggi nelle proprie facoltà conoscitive, leggi che egli poi proietta sulla realtà. È l’uomo il legislatore della natura, non è la natura ad avere in sé una legge che l’uomo deve andare a ricercare. «L’io è il legislatore della natura», afferma Kant. Compito del filosofo sarà allora quello di indagare le strutture conoscitive umane, che Kant chiama nel loro insieme “ragione”, e che sono articolate in intuizione, intelletto e ragione propriamente detta. Kant, quindi, fa la critica, il bilancio critico della ragion pura, cioè della ragione nella sua purezza formale, a prescindere dai contenuti che essa conosce. Dei contenuti Kant non si interessa: egli indaga l’aspetto puramente formale della ragione. Va notato che Kant usa il termine “ragione” in senso lato per intendere le facoltà conoscitive dell’uomo nel loro complesso, in senso stretto per indicare la più alta facoltà conoscitiva umana. L’intuizione, grosso modo, equivale alla percezione negli altri filosofi; più in avanti vedremo quali differenze ci sono tra intelletto e ragione. Ora, prima di addentrarci in un’analisi più minuziosa, parliamo della ragione semplicemente come dell’insieme delle facoltà conoscitive.L’insieme delle facoltà conoscitive umane, ovvero la ragione, per Kant è come una forma che si va a stampigliare sui contenuti di conoscenza che il mondo ci offre. Non possiamo avere alcuna conoscenza delle cose quali sono in loro stesse, prescindendo dall’apporto formale, dall’aggiunta formale, che noi stessi diamo alla conoscenza. Non possiamo mai raggiungere la conoscenza delle cose nella loro oggettività, quali esse sono in loro stesse. Di conseguenza abbiamo una conoscenza soltanto fenomenica del mondo (dal verbo grecopháinomai, apparire). L’uomo, come il re Mida della leggenda, trasforma tutto quello che tocca. Non può entrare in contatto con qualche cosa rispettandola per quello che essa è, ma, inevitabilmente, nel toccarla la trasforma, o meglio, le dà forma con le proprie strutture conoscitive. In altri termini, nel conoscere non possiamo prescindere da come noi stessi siamo fatti. È come se inforcassimo lenti colorate che non ci possiamo togliere a piacimento: tutta la realtà esterna è filtrata attraverso queste lenti colorate, noi non possiamo percepirla quale essa è in se stessa, la percepiamo e la percepiremo sempre quale ci appare attraverso questo filtraggio, attraverso questo meccanismo che le dà una certa forma. Questo meccanismo dipende appunto dalle nostre facoltà conoscitive.

Ragione
(in senso Lato)
{ Intuizione
Intelletto
Ragione
(in senso stretto)

Per Kant la conoscenza della cosa quale essa è in se stessa non è mai raggiungibile. Vediamo le cose soltanto quali appaiono a noi. A questo punto sembrerebbe che siamo ricaduti in una posizione ancora peggiore dello scetticismo di Hume. E invece non è così, perché Kant sostiene che è vero che trasformiamo ogni conoscenza del mondo esterno, ma ognuno di noi opera una trasformazione analoga, identica a quella degli altri. Anche in questo senso Kant è fortemente illuminista: per gli illuministi la ragione è una struttura universale, è propria cioè di tutti gli uomini, è ciò che rende uguali tutti gli uomini. Questo è accettato pienamente da Kant: per Kant tutti gli uomini sono dotati di ragione, cioè tutti gli uomini posseggono la ragione, strutturata in intuizione, intelletto e ragione in senso stretto, quindi tutti gli uomini operano una deformazione della realtà esterna o, meglio, danno forma alla realtà, ma tutti lo fanno nella stessa maniera. Quello specchio deformante che è la nostra coscienza, che è la nostra ragione, opera in maniera identica in ogni uomo:  è vero che si tratta di una deformazione della realtà esterna, ma questo nulla toglie all’universalità. Questa è una delle difficoltà che presenta la comprensione della novità del pensiero kantiano. Fino a Kant ciò che è soggettivo è personale, è arbitrario, ecc., mentre ciò che è oggettivo è universale. In Kant invece si raggiunge l’universalità all’interno della soggettività: le strutture soggettive (intuizione, intelletto e ragione), essendo uguali in tutti gli uomini, danno luogo a conoscenze universali. Kant recupera l’universalità all’interno della soggettività. Mentre fino a Kant di solito si intende che “oggettivo” è uguale a “universale”, invece per Kant “soggettivo” è uguale a “universale”.
Per Kant ogni conoscenza, da quella più elementare a quella più complessa, è sempre frutto di due componenti, cioè di un elemento materiale e di un elemento formale. L’elemento materiale è quello che viene dall’esterno, ma ad esso è inevitabilmente aggiunto un elemento formale, che è un apporto della nostra ragione. È come se, in tre fasi successive, avvenisse una donazione di forma alla materia (che ci viene dall’esterno). Ci sono come tre rielaborazioni, tre filtraggi successivi della conoscenza, che avvengono ad opera dell’intuizione, dell’intelletto e della ragione. Partiamo dalla conoscenza più elementare, che è quella intuitiva, cioè percettiva, è quella del mondo sensibile. Secondo Kant, anche nella conoscenza sensibile più elementare c’è già la forte presenza di una forma dovuta alla nostra facoltà dell’intuizione. Infatti, non appena apriamo gli occhi sul mondo, collochiamo gli oggetti in uno spazio, collochiamo le cose a destra, a sinistra, avanti, dietro, in alto, in basso, “spazializziamo” gli oggetti, i quali non si trovano di per se stessi nello spazio. Il fatto che la lavagna sia sulla destra e la porta sulla sinistra non è un fatto indipendente da noi osservatori, è vero soltanto per un osservatore posto nella mia posizione, oppure, viceversa, nella vostra posizione. Quello che per Kant conta è che chiunque si metta al posto mio, vedrà a destra la lavagna e a sinistra la porta. La conoscenza, pur essendo soggettiva, perché è il soggetto, l’uomo conoscente che inserisce la relazione spaziale, è però una conoscenza universale. Qualunque osservatore compie la stessa operazione di spazializzazione. La prima forma che viene data agli oggetti esterni attraverso l’intuizione è quella dello spazio, che è una forma a priori della conoscenza, ma è una forma a priori presente nella stessa maniera in tutti gli uomini, in termini kantiani è una forma a priori trascendentale.
A tutte le forme a priori della conoscenza Kant aggiunge sempre l’aggettivo “trascendentale”, termine cardine della sua filosofia, in cui si condensa la novità del suo pensiero. Infatti il trascendentale di Kant è opposto sia all’empirico, sia all’a priori dei razionalisti, è una via di mezzo rispetto all’a posteriori sensibile degli empiristi e all’a priori dei razionalisti. Che cosa significa che lo spazio è una forma a priori trascendentale? Significa che lo spazio non è empirico, non è ricavato dall’esperienza, non è nelle cose: tolto l’uomo, lo spazio non esiste. Kant respinge la visione newtoniana dello spazio come una sorta di grande recipiente in cui avvengono i movimenti dei corpi studiati dalla meccanica, dalla fisica. Lo spazio però non è neppure a priori nel senso razionalistico, che prescinde dall’esperienza: l’a priori dei razionalisti (basti pensare alle idee innate di Cartesio) è qualche cosa che conosco, che ho in mente in maniera indipendente dall’esperienza; invece lo spazio di Kant non è qualche cosa che sta al di fuori dell’esperienza, come una idea innata posseduta a prescindere dall’esperienza. Lo spazio è una facoltà spazializzatrice del soggetto, che entra in moto quando il soggetto si trova due oggetti da collocare in reciproca posizione l’uno rispetto all’altro. Lo spazio non c’è né empiricamente nella realtà oggettiva, né nella mente come un’idea a priori: esso c’è nel momento in cui la ragione, più specificamente la facoltà dell’intuizione, si incontra con gli oggetti e li colloca uno a destra e l’altro a sinistra, uno in alto e l’altro in basso, uno avanti e l’altro dietro, ecc. Lo spazio quindi non è né nell’esperienza, nell’oggetto, né nel soggetto, bensí è “trascendentale”, è una forma a priori trascendentale in quanto esiste soltanto nell’incontro tra soggetto e oggetto. Ogni volta che Kant usa il termine “trascendentale” vuole con questo sottolineare che si tratta di qualche cosa che nasce dall’incontro tra il soggettivo e l’oggettivo, oppure, in altri termini, tra la forma e la materia del conoscere, cioè tra la forma conoscitiva del soggetto e il contenuto oggettivo, il dato. Quando si incontrano questi due elementi scocca la scintilla del trascendentale.
La prima scintilla trascendentale è quella dello spazio. Ognuno di noi non appena fa esperienza colloca gli oggetti spazialmente, attraverso la forma a priori trascendentale di spazio. La seconda forma trascendentale dell’intuizione è quella del tempo, che è la forma a priori trascendentale dell’esperienza non più esterna bensíinterna. Ho desideri, atti di volontà, sensazioni, ricordi, ecc. e tutti questi stati interiori li ordino in successione, gli uni prima e gli altri dopo. Per esempio: avverto un rumore dalla strada, rimango scosso, questo mi fa venire in mente ricordi; allora: il fastidio del rumore, l’irritazione, il ricordo, poi magari il nascere di un desiderio in base a questo… possiamo immaginare tante catene di stati psichici che si succedono gli uni agli altri. Per Kant anche il tempo non è qualche cosa di oggettivo, un ritmo oggettivo della realtà com’era per Newton, che permette di misurare temporalmente  tutti i movimenti, tutti i fenomeni: il tempo è qualche cosa che noi aggiungiamo alla realtà. Kant sottolinea che il tempo è più estensivo dello spazio, in quanto, mentre lo spazio si applica soltanto agli oggetti esterni, il tempo si applica sia agli stati interiori, sia agli oggetti esterni. Ogni evento esterno, essendo inquadrato dalla nostra intuizione, viene assorbito dalla nostra facoltà intuitiva. Mentre gli atti di volontà, i desideri, ecc. non vengono collocati spazialmente, le percezioni che vengono dal mondo esterno vengono da noi interiorizzate e collocate in successione nel tempo. Tutte le sensazioni, sia esterne sia interne, sono messe in successione dalla forma del tempo: mentre la forma dello spazio è limitata solo agli oggetti esterni, la forma del tempo è estesa invece a tutte le nostre percezioni, sia esterne sia interne. Ricorriamo di nuovo alle parole di Kant: «Vi sono due forme di intuizione sensibile, come principii della conoscenza a priori, cioè lo spazio e il tempo. Mediante il senso esterno noi ci rappresentiamo gli oggetti come fuori di noi, e però tutti nello spazio. Quivi sono determinate, o determinabili, la loro forma, la loro grandezza e le loro reciproche relazioni. – Mediante il senso interno, lo spirito intuisce se stesso, o i suoi stati interiori, rappresentandoseli secondo rapporti di tempo [gli uni prima o dopo gli altri]. Il tempo è la condizione formale a priori di tutti i fenomeni in generaleLo spazio, essendo la forma pura di ogni intuizione esterna, è limitato (come condizione a priori) ai soli fenomeni esterni. Invece, siccome tutte le rappresentazioni – abbiano o no per oggetto cose esterne – considerate in se stesse, quali modificazioni dello spirito [del soggetto], appartengono sempre allo stato interno; e siccome questo stato interno rientra sotto la condizione formale dell’intuizione interna, e quindi del tempo, così il tempo è condizione a priori di tutti i fenomeni in generale; condizione immediata dei fenomeni interni (dell’anima nostra), e, con ciò, mediatamente anche degli esterni. Se posso dire a priori che tutti i fenomeni esterni sono nello spazio e determinati a priori secondo relazioni spaziali,  posso anche, in base al principio del senso interno, dire univer- salmente che tutti i fenomeni in generale, cioè tutti gli oggetti dei sensi, sono nel tempo, e stanno necessariamente in reciproci rapporti di tempo».
Una volta che i fenomeni sono stati inquadrati nelle forme dello spazio e del tempo essi subiscono un’ulteriore rielaborazione: vengono unificati dall’intelletto. L’in- telletto è una facoltà capace di emettere giudizi, e quindi di conoscere in maniera piena, infatti, come abbiamo detto prima, per Kant conoscere è giudicare, connettere termini fra di loro. Ora, l’intelletto opera queste connessioni, cioè emette giudizi, e in questo senso arriva alla conoscenza piena. Per la prosecuzione del discorso va sottolineato che l’intelletto, essendo una facoltà che unisce soggetto e predicato, si muove in una dimensione limitata, cioè unisce un singolo soggetto con un singolo predicato, dà luogo quindi a una visione del mondo atomizzata, non riesce ad arrivare alla grande sintesi delle conoscenze che invece costituisce l’ambizione della ragione. La distinzione tra intelletto e ragione è questa: l’intelletto è una facoltà analitica, che si ferma a un mondo frammentario, mentre invece la ragione in senso stretto ha l’ambizione di cogliere la totalità del mondo, la totalità delle conoscenze, cioè di operare grandi sintesi. Come fa l’intelletto a operare le limitate sintesi di soggetto e predicato? Mediante dodici categorie o concetti, cioè dodici modi di connessione dei fenomeni tra di loro. Come giunge Kant ad affermare che sono dodici? Lo ricava dalla storia della conoscenza umana: considera i giudizi storicamente dati, e sostiene che tutti i giudizi si possono raggruppare in giudizi di quantità, di qualità, di modalità e di relazione. Ognuno di questi quattro tipi si articola in tre caratterizzazioni, si giunge così a dodici tipi di giudizi, in cui si possono catalogare tutti i giudizi conoscitivi possibili. Se ci sono dodici tipi di giudizi ci devono essere dodici modi per connettere soggetti e predicati, cioè dodici categorie: Kant chiama categorie o concetti questi modi di connessione del soggetto col predicato.
I concetti o categorie kantiane sono qualcosa di rivoluzionario e assolutamente diverso dalla maniera aristo- telica e classica di intendere le categorie. Non sono i frutti supremi dell’astrazione, l’ultimo residuo dell’astrazione dal particolare all’universale, le nozioni supreme, bensí meccanismi di connessione dei dati, sono funzioni del nostro intelletto che appunto connettono soggetti con predicati. A questo proposito rientra in gioco con forza il termine “trascendentale”: le categorie sono trascendentali. Vale a dire che esse – ne enunciamo qualcuna: l’esistenza, la negazione, la causalità, la sostanza, ecc. – sono meccanismi di connessione che si esercitano soltanto su un materiale già elaborato nelle forme dello spazio e del tempo. In altri termini, le categorie non sono idee che abbiamo nella nostra mente, ma meccanismi di funzionamento del nostro intelletto che entrano in gioco quando hanno un materiale concreto da poter riordinare, da poter mettere insieme. Provo a fare un paragone forse un po’ singolare; l’intelletto è come uno stomaco: uno stomaco non è effettivamente tale fino a quando non digerisce, cioè fino a quando non rielabora il cibo. Se non c’è materia del conoscere, l’intelletto non entra in movimento: esso entra in azione soltanto quando si può mettere a lavorare sui dati e li può connettere unificando un soggetto con un predicato. Questo fatto è caratterizzato dal termine “trascendentale”.
Si pone a questo punto il problema di come le categorie a priori dell’intelletto possano applicarsi a ciò che è a posteriori, ai dati sensibili. In una parte molto complessa della Critica della ragion pura, intitolata “Sche- matismo trascendentale”, Kant cerca di evitare che possa essergli rivolta quella stessa accusa di dogmatismo da lui indirizzata ai razionalisti. Egli identifica un ponte fra intuizione e intelletto, un elemento comune alle esperienze intuite e alle categorie che colmi l’abisso che sembra separare il sensibile dalle categorie dell’intelletto: questo ponte è dato dal tempo. Così egli pone il problema: «Ora è chiaro che ci ha da essere un termine, il quale deve essere omogeneo da un lato con la categoria e dall’altro col fenomeno, e che rende possibile l’applicazione di quella a questo». Il tempo è omogeneo tanto al dato sensibile intuito quanto alla categoria. In termini semplici questo è quanto Kant rileva: il tempo è la forma trascendentale a priori dell’intuizione che dà forma a tutte le esperienze, sia quelle interiori, sia quelle esterne in quanto interiorizzate. Non c’è dunque dato sensibile che non sia fornito dall’intuizione all’intelletto in una forma temporale. Ma il tempo è anche lo schema costitutivo delle categorie, ognuna delle quali può essere ricondotta a uno schema temporale: per esempio la sostanza corrisponde alla permanenza nel tempo, la causalità alla successione nel tempo, la reciproca azione alla simultaneità, e così via. Nel  tempo Kant identifica dunque il fattore intermedio che lega insieme dati sensibili e categorie dell’intelletto, realtà empirica concreta e astratte categorie mentali.
Riprendiamo la lettura di Kant: «Chiamiamo sensibilità la ricettività del nostro spirito, ossia la sua capacità di ricevere rappresentazioni, quando esso è in un qualche modo modificato [la sensibilità implica ancora una certa passività, la ricettività rispetto al dato]; intelletto è invece la facoltà di produrre da sé rappresentazioni [concetti], ossia la spontaneità della conoscenza. – Nessuna di queste due facoltà può anteporsi all’altra. Senza la sensibilità nessun oggetto ci sarebbe dato, senza l’intelletto nessun oggetto sarebbe pensato. I pensieri senza contenuto [sensibile] sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche Quindi è altrettanto necessario rendere sensibili i propri concetti (cioè riferirli all’intuizione) quanto rendere intelligibili le proprie intuizioni (cioè trasformarle in concetti)». Questa importante affermazione ci riporta all’inizio del discorso: abbiamo detto che la Critica della ragion pura è un tentativo di bilancio delle facoltà conoscitive; a questo punto possiamo dire che Kant afferma la validità scientifica della matematica e della fisica: la matematica si basa sulle forme a priori di spazio e tempo, è concretamente fondata su queste forme a priori universali e necessarie, in quanto la geometria si fonda sulle relazioni spaziali, quindi sulla forma di spazio; l’aritmetica, con tutto quello che ne consegue, in quanto fondata sulla successione dei numeri, nasce dalla successione del tempo, e il tempo è altrettanto una forma trascendentale a priori dell’intuizione. Questo è un primo frutto del bilancio fatto da Kant.  Il secondo scaturisce dalla valutazione dell’intelletto: la categoria di causalità, che, presa nei termini tradizionali, era stata rifiutata da Hume, ora viene riproposta come una categoria a priori dell’intelletto, quindi la fisica, che si fonda sulla categoria di causalità, è anch’essa giustificata, perché si fonda sulle categorie, cioè sulle forme che sono a priori e quindi danno luogo ad una conoscenza universale e necessaria. La matematica e la fisica sono scienze a pieno titolo, sono investite di nuova validità alla luce delle scoperte di Kant. La sua ambizione però era di verificare la possibilità della metafisica. È chiaro che ci avviamo verso un discorso per cui la metafisica nel senso tradizionale è impossibile, in quanto le categorie dell’intelletto, che danno luogo alla conoscenza, sono trascendentali, cioè si applicano solo a concreti contenuti di esperienza. Nella citazione che abbiamo letto esse sono «vuote»: non possono funzionare se non hanno un contenuto sensibile, cioè un contenuto già inquadrato a sua volta nello spazio e nel tempo. Ora, gli oggetti tradizionali della metafisica, Dio, l’anima, il mondo nella sua interezza, non sono oggetto di intuizione, non sono inquadrati nello spazio e nel tempo; non essendo oggetto di intuizione, non possono essere oggetto di elaborazione da parte dell’intelletto e quindi di conoscenza. Di conseguenza la metafisica non è una scienza, come invece lo sono la matematica e la fisica.
«Ogni nostra intuizione non è che la rappresentazione di un fenomeno. Le cose che noi intuiamo non sono in se stesse quali noi le intuiamo, né i loro rapporti sono cosiffatti come ci appariscono; e se sopprimessimo il nostro soggetto o anche solo la natura subbiettiva dei sensi in generale, tutte le proprietà, tutti i rapporti degli oggetti, nello spazio e nel tempo, anzi lo spazio stesso e il tempo sparirebbero, poiché come fenomeni non possono esistere in sé, ma soltanto in noi. Quale possa essere la natura degli oggetti considerati in sé e separati dalla recettività dei nostri sensi, ci rimane interamente ignoto». A questo punto Kant definisce il concetto di cosa in sé. Possiamo conoscere la realtà quale ci appare, ma la realtà quale è in se stessa ci sfugge irrimediabilmente. Kant la chiama cosa in sé e la considera inattingibile, irraggiungibile. Il fatto che la  realtà in sé non sia conoscibile non implica che non possa essere pensata. Pensare non significa conoscere; si può pensare anche qualche cosa di fantastico o di immaginario. Kant chiama perciò la cosa in sé anche noumeno(noûs in greco significa mente): la cosa in sé è una realtà pensabile, ma non conoscibile. Si comincia a delineare in Kant un dualismo tra fenomeno e noumeno.
«Noi non conosciamo se non il nostro modo di percepirli, che ci è peculiare, e che non è neanche necessario che appartenga ad ogni essere, sebbene appartenga a tutti gli uomini». Ci sono specie animali, e si possono ipotizzare creature superiori agli uomini, con forme di inquadramento spazio-temporale, concettuale, diverse dalle nostre. Noi vediamo il mondo come è filtrato dalle nostre strutture conoscitive, strutture conoscitive che non è detto che appartengano a ogni essere, sebbene appartengano, però, a tutti gli uomini. Esse sono quindi universali e vengono da Kant indicate anche con la formula: “Io penso”. Con questa espressione Kant vuol sottolineare che esistono dodici categorie, ma le dodici categorie sono pur sempre categorie adoperate da ununico  soggetto: l’“Io penso” è il soggetto portatore di tutte le categorie. È l’elemento che unifica la conoscenza. La conoscenza è unificata non più nel concetto di mondo oggettivo, bensí nel concetto di Io penso, che è l’insieme delle dodici categorie, ma soprattutto – per il fatto or ora sottolineato che queste dodici categorie sono identiche in ogni uomo – è la struttura conoscitiva umana dell’uomo con la “U” maiuscola. C’è quindi una universalità delle strutture conoscitive.
«Noi abbiamo da fare solamente con esso. Spazio e tempo sono le forme pure di esso; la sensazione, in generale, ne è la materia. Anche se portassimo questa nostra intuizione al più alto grado della chiarezza, non per questo ci accosteremmo di più alla natura degli oggetti in sé. Giacché in ogni caso noi non potremmo conoscere compiutamente se non il nostro modo di intuizione, cioè la nostra sensibilità, e questa sempre nelle condizioni originarie inerenti al soggetto, di spazio e tempo; ma che cosa siano gli oggetti, in se stessi, per quanto possa essere chiara la conoscenza dei loro fenomeni – la sola che ci sia data – non ci sarebbe mai noto». Quindi, non possiamo mai raggiungere la conoscenza oggettiva.
«Quando noi consideriamo, come è giusto, gli oggetti dei sensi come puri fenomeni, ammettiamo con questo nello stesso tempo che ad essi sta a fondamento una cosa in sé, quantunque noi non la conosciamo come è costituita in sé, ma ne conosciamo solo il fenomeno, ossia il modo con cui questo ignoto qualcosa impressiona i nostri sensi. L’intelletto quindi, pel fatto stesso che ammette i fenomeni, ammette anche l’esistenza di cose in sé, e pertanto noi possiamo dire che la rappresentazione di questi esseri che stanno a fondamento dei fenomeni e cioè la rappresentazione di puri esseri intelligibili [noumeni] non solo è legittima, ma è inevitabile». L’uomo non può raggiungere il mondo noumenico, il mondo delle cose come sono in loro stesse, ma c’è,  dice Kant, un’illusione trascendentale di poterlo fare. La suprema facoltà conoscitiva dell’uomo, vale a dire la ragione in senso stretto, ha l’ambizione di cogliere sinteticamente che cos’è il mondo, che cos’è l’anima, che cos’è Dio. Mentre le forme trascendentali dell’intelletto sono le  categorie dell’intelletto, quelle della ragione sono tre ideeDio, anima e mondo, le quali sono grandi direttrici di sintesi delle conoscenze. L’idea di mondo è la tendenza alla sintesi di tutte le conoscenze esterne; l’idea di anima è la tendenza alla sintesi di tutte le conoscenze interne, degli stati interiori; l’idea di Dio è la tendenza alla sintesi di tutte le conoscenze esterne e interne. Che questa tendenza sia legittima per Kant si vede già dal fatto che, come emerge nella citazione precedente, egli accredita l’aspirazione dell’uomo al noumeno, e questo aprirà la strada alla Critica della ragion pratica. Ma delle idee della ragione, che segnalano una esigenza metafisica dell’uomo, si fa un uso sbagliato, unuso costitutivo. La metafisica ha compiuto questo errore: ha considerato queste tre idee come tre cose. Le tre idee, che sono forme della ragione, le ha viste come costituenti tre entità. La tendenza a unificare tutte le conoscenze esterne, che è un’idea, è stata vista come il mondo; la tendenza a unificare tutte le sensazioni interiori è stata sostanzializzata nell’anima e così si è sostanzializzata l’idea di Dio in un Dio esistente come entità suprema. Per Kant l’uso corretto delle idee è invece l’uso regolativo, cioè quello che spinge a scorgere insiemi di conoscenze sempre più vasti, a superare la limitatezza dell’intelletto, la limitatezza analitica, nello sforzo di raggiungere una visione complessiva e organica della realtà: l’intelletto ci fornisce come le tessere di un mosaico, che la ragione cerca di mettere insieme.
Kant precisa la sua critica alle tre parti della metafisica tradizionale: la cosmologia razionale, la psicologia razionale e la teologia razionale. Per quanto riguarda la cosmologia razionale, la parte della metafisica che si occupa del mondo, Kant enumera le antinomie della cosmologia, cioè dà una prova storica dell’infondatezza della cosmologia, mettendo a confronto quanto la metafisica ha detto sul mondo quando ha preteso di poterlo considerare come un oggetto di conoscenza. Questa, naturalmente, è una pretesa infondata, perché noi non inquadriamo mai in uno spazio e in un tempo il mondo nella sua totalità; non inquadrandolo mai in una conoscenza intuitiva non possiamo applicarvi le categorie dell’intelletto, quindi non possiamo affermare sul mondo alcunché che abbia valore conoscitivo. Di conseguenza Kant sottolinea che, storicamente, la metafisica ha detto tutto e il contrario di tutto sul mondo, perché evidentemente quello che si dice sul mondo nella sua interezza non è verificabile. Egli enumera allora  le quattro antinomie della cosmologia, cioè affermazioni che sono in contrasto tra di loro e non sono conciliabili. Kant vede una dialettica dicotomica, a due termini: una tesi e un’antitesi di cui l’una esclude l’altra. Per Kant tesi e antitesi sono assolutamente inconciliabili, cioè sono una opposta all’altra (a differenza di quanto sosterrà Hegel). L’elenco delle antinomie della cosmologia è il seguente:

TESI
Il mondo è:
a) finito nello spazio e nel tempo;
b) costituito di elementi semplici  in numero finito;
c) implicante una causa      libera come cominciamento della serie dei cambiamenti;
d) fondato nella sua contingenza su un essere assolutamente necessario.
ANTITESI
Il mondo è:
a) infinito e eterno;
b) divisibile all’infinito;
c) soggetto al determinismo che esclude ogni libertà;
d) in tutto contingente e mutevole.

La parte della metafisica che affronta il mondo, la cosmologia razionale, si distrugge da sé perché formula affermazioni contraddittorie; la parte della metafisica che affronta l’anima, la psicologia razionale, cade in un errore fondamentale, in un paralogismo. Il paralogismo è una forma di sillogismo sbagliato, in cui si ha l’impressione di usare il termine medio correttamente, invece in effetti lo si usa in due accezioni diverse e quindi il sillogismo non funziona. Il termine medio, “l’anima”, viene usato in una maniera sbagliata dalla metafisica; essa una volta lo usa come una sostanza, e un’altra volta come una funzione. Il concetto fondamentale qual è? Che per la metafisica le nostre funzioni di unificazione della conoscenza, quelle che Kant chiama “Io penso”, sono scambiate per una sostanza. L’“Io penso” invece è anch’esso trascendentale come tutte le categorie, cioè  esiste in quanto unifica, dà ordine, dà forma all’esperienza sensibile; quando non c’è nessuna esperienza sensibile non c’è nessun “Io penso”. Per questo Kant lo denomina anche “appercezione trascendentale”. L’“Io penso” è una funzione che riunisce tutte le funzioni trascendentali della ragione umana. La metafisica, con un falso ragionamento, con un paralogismo, scambia la funzione dell’“Io penso” per una cosa, la vede come una sostanza, sostanzializza l’“Io penso” chiamandolo “anima”, come se fosse una cosa dotata di una sua consistenza indipendente dalla conoscenza del mondo. La metafisica non vede l’“Io penso” come trascen- dentale, come esistente nel momento in cui riordina un mondo, bensí come un qualche cosa di esistente di per sé. Sulla base di questo errore essa finisce col dire cose opposte sull’anima: una parte della metafisica afferma che l’anima è semplice, un’altra che è composta; una che è mortale, l’altra che è immortale, ecc.: anche sull’anima si finisce col dire cose contraddittorie.
Infine Kant analizza la teologia razionale e critica le prove dell’esistenza di Dio. Queste per Kant sono riducibili a tre, ma il loro schema di ragionamento in fondo è uno solo: il famoso argomento ontologico di Sant’Anselmo, poi ripreso da Cartesio. Le altre prove sono quella cosmologica, cioè la prova che risale dall’esistenza di cose contingenti, che possono esserci o non esserci, a un ente necessario, e la prova fisico-teologica, legata a un finalismo del mondo da cui si risale a Dio che lo avrebbe posto. Kant in effetti le riconduce tutt’e tre alla prova ontologica: qual è il loro comune difetto? Esse applicano in maniera arbitraria a un’idea la categoria di esistenza, che appunto è una categoria trascendentale a priori dell’intelletto, come tale applicabile soltanto a oggetti che siano già inquadrati nello spazio e nel tempo. L’argomento ontologico di Sant’Anselmo sostiene: dato che chiunque (anche l’ateo che la nega) è in possesso dell’idea di suprema perfezione, cioè dell’idea di Dio, l’idea di suprema perfezione non può mancare di quella parte della perfezione che è l’esistenza, e di conseguenza dall’idea di Dio si può passare all’esistenza reale di Dio. Kant a questo proposito ricorre a una famosa frase ironica: «Cento talleri [i talleri erano la moneta prussiana] nella mia mente non sono cento talleri nella mia tasca». Vuole dire ovviamente che alle idee non corrispondono necessariamente le cose. Kant cioè nega che si possa applicare la categoria dell’esistenza a un’entità puramente ideale come l’idea di perfezione, l’idea di Dio. Cade così anche la teologia, parte culminante della metafisica: la metafisica tradizionale non è possibile come scienza.
Dice Kant: «Io intendo per idea un concetto necessario della ragione, al quale non può esser dato nessun oggetto corrispondente nella realtà sensibile. Le idee sono concetti della ragione pura, perché esse considerano ogni conoscenza empirica come determinata da una totalità di condizioni. Non sono invenzioni arbitrarie, ma sono imposte alla ragione dalla loro stessa natura. E sono trascendenti, perché trascendono i limiti di ogni esperienza, non potendosi dare in questa un oggetto che sia adeguato all’idea trascendentale. Le idee sono tre: l’idea del soggetto assoluto, sostanziale [l’anima, come essere permanente attraverso il variare degli stati dell’esperienza interna], l’idea della serie assoluta delle condizioni [il mondo come tutto, come serie compiuta o sistema chiuso di tutte le condizioni della connessione dei fenomeni dell’esperienza della natura], la determinazione di tutti i concetti nell’idea di una totalità assoluta del possibile [Dio, come il principio della totalità assoluta dell’essere, nel quale tutti gli esseri si unificano e si accomunano]. La prima idea è psicologica (anima), la seconda cosmologica (mondo), la terza teologica (Dio)».
Ripeto: Kant ammette un uso regolativo delle idee, ma nega che possa essere fatto un uso costitutivo di esse. Leggiamo ancora due righe e concludiamo: «Così le idee trascendentali servono, se non a darci delle cognizioni positive [perché non ci dicono niente su Dio, l’anima e il mondo, non ci danno conoscenze positive], a distruggere le temerarie affermazioni del materialismo, del naturalismo e del fatalismo, così dannose per la ragione…». Kant è un pensatore complesso: nel momento in cui nega la metafisica, ci tiene però a dire: «Guardate che non per questo sono un materialista; su Dio non si può dire niente sulle basi della metafisica, non si può dire né che è, né che è causa del mondo, però non si può dire neppure l’inverso. Non si può dire che Dio non esiste e non è causa del mondo. «…e per questa via aprono alle idee morali un libero campo al di là di quello della speculazione. Questa è, mi sembra, la spiegazione adeguata di quella disposizione naturale alla metafisica».
Le tre idee trascendentali di Dio, anima e mondo, usate male dalla metafisica, sono però il segnale che l’uomo aspira e può aspirare a un mondo diverso, può entrare in contatto col mondo superiore del noumeno. Non riesce ad accedere a questo mondo per via conoscitiva. L’analisi delle facoltà conoscitive si è chiusa. Il bilancio, da positivo che era per matematica e fisica, è diventato totalmente negativo per la metafisica. L’uomo con la conoscenza non si può mettere in relazione con Dio e con l’anima, ma la presenza in lui di queste idee trascendentali lascia intravedere uno spiraglio per cui può aspirare, per altra via, a entrare in contatto con queste entità. C’è nell’uomo una disposizione naturale alla metafisica e Kant tenterà di fondarla in un modo completa- mente nuovo nella Critica della ragion pratica.


CRITICA DELLA RAGION PRATICA

Abbiamo iniziato a parlare di Kant definendolo un Giano bifronte, rivolto da una parte al Settecento, dall’altra all’Ottocento, da una parte al pensiero illuministico, di cui segna il culmine, dall’altra  a una cultura diversa, che sarà la cultura romantica. Abbiamo sostenuto: Kant è una figura complessa perché appunto si colloca a cavallo di due secoli, di due culture. A proposito della Critica della ragion pura abbiamo detto che è un’opera di stampo fortemente illuministico, in quanto in essa la ragione non riconosce alcun tribunale più elevato di se stessa, e si mette a giudicare le proprie capacità conoscitive, implicitamente sottolineando che al di sopra di sé, al di sopra della ragione, non c’è nessun’altra autorità. In questo senso, Kant rappresenta il culmine dell’Illuminismo, ma mentre l’Illuminismo si è tenuto fermo a una conoscenza del mondo finito e ha escluso ogni discorso metafisico, Kant, con le tre idee della ragione, manifesta l’esigenza di riappropriarsi di un discorso sull’assoluto, sull’infinito, su Dio, sul destino dell’uomo, avverte quindi l’esigenza di una metafisica, anche se nega la metafisica dal punto di vista conoscitivo. La Critica della ragion pura, che è un bilancio delle facoltà conoscitive umane, giunge all’affermazione che la matematica e la fisica sono scienze in quanto fondate sulle forme a priori, la metafisica, invece, non è una scienza: i tre enti oggetto della metafisica, Dio, anima e mondo, non sono oggetto di intuizione sensibile, di conseguenza su di essi non possono lavorare le categorie e pertanto di essi non si può avere conoscenza. Kant nega la metafisica nel senso tradizionale come tentativo di conoscenza di Dio, anima e mondo, ma ne avverte l’esigenza. Questa esigenza viene da lui ripresa, da tutt’altra angolazione, nella Critica della ragion pratica, che ci conferma pertanto l’impressione di una ambivalenza di Kant: l’appartenenza all’Illuminismo e l’andare oltre.
L’appartenenza all’Illuminismo la noteremo subito anche nella Critica della ragion pratica , che si fonda su una estrema fiducia nella ragione umana. Kant non pensa di doversi affaticare a dimostrare l’esistenza della ragione nel campo pratico: egli semplicemente afferma che la ragione è di per se stessa anche pratica. La ragione fa sentire la sua voce anche nella sfera dell’azione. Non c’è bisogno di chiedersi il perché: la presenza della ragion pratica va constatata semplicemente come un fatto. La ragione si fa sentire sotto forma di imperativo, quello che il linguaggio comune chiama “voce della coscienza”. Ecco, potremmo dire nel linguaggio corrente: per Kant in ogni uomo c’è la voce della coscienza. Questo fatto non va dimostrato. Kant ne parla come del “fatto” della ragione: qualcosa che dev’essere semplicemente riconosciuto. La presenza della ragione nell’uomo, dal punto di vista pratico, si avverte sotto la forma di imperativi, cioè di comandi che richiedono obbedienza. Su questi imperativi ci soffermeremo. Voglio però far presente subito, ai fini di un inquadramento generale di tutto il discorso, che anche nella sfera pratica la ragione si fa sentire dal punto di vista puramente formale. Nella Critica della ragion pura troviamo esclusivamente un’analisi delle forme trascendentali a priori della ragione: anche qui la ragione non ci dà contenuti. Nella Critica della ragion pura, nella sfera della conoscenza, la ragione ci dà semplicemente la forma: lo spazio, il tempo, le categorie. Il problema dei contenuti non riguarda la filosofia, che si occupa soltanto delle forme. La ragione ci fornisce le forme; i contenuti vengono dall’esterno, se vogliamo, vengono dalla cosa in sé. Nella morale è la stessa cosa: la ragione fa sentire la sua voce, abbiamo detto, ma si fa sentire indicando semplicemente la forma in cui bisogna volere le azioni, mentre i contenuti dell’azione morale sono estremamente vari, sono infiniti, sono offerti dalle più diverse circostanze. Possiamo quindi dire che un elemento di continuità tra la prima e la seconda Critica è questo: in tutt’e due i casi è al centro la ragione puramente formale, nel primo caso essa ci dà la forma del conoscere, ma i contenuti della conoscenza vengono dall’esterno; nel secondo caso ci indica la forma del volere, ma i contenuti del volere, i contenuti dell’azione dipendono dalle circostanze esterne. Stabilito che la ragione può dare soltanto la forma delle azioni morali, da che cosa essa è caratterizzata? La ragione ha una caratteristica fondamentale che le è connaturata:l’universalità. La ragione è la facoltà identica in ogni uomo. Questo ci porterà a considerare l’estremo rigore della morale kantiana, coerente con la sua impostazione fortemente illuministica.
Gli illuministi sono stati i padri teorici della Rivoluzione francese, che aveva tra le sue parole d’ordine appunto l’uguaglianza. L’uguaglianza scaturisce dalla centralità della ragione. Mentre il sentimento, le passioni, i gusti, sono variabili da individuo a individuo, la ragione è la facoltà presente in maniera identica in ogni individuo. Dalla centralità della ragione scaturisce immediatamente l’universalità, come scaturisce l’uguaglianza. La morale kantiana, quindi, essendo fondata sulla ragione, è una morale che si batte contro quelle che Kant chiama, con termine molto significativo, inclinazioni. I sentimenti, i gusti, le passioni, i desideri sono per Kant inclinazioni. Per questo pensatore, che era molto rigoroso anche nella sua vita privata, bisogna evitare le inclinazioni, che tendono a far deviare dal retto cammino. La ragione, quindi, implicherà una lotta con le inclinazioni, ma implicherà anche l’universalità. Si delinea un’altra analogia con la Critica della ragion pura: ancora una volta Kant recupera l’universalità all’interno della soggettività; in ogni soggetto umano c’è la ragione, e ispirandosi alla ragione l’uomo può trovare la via del corretto comportamento, del comportamento virtuoso, ma ogni altro uomo che si trovi nelle sue condizioni dovrà seguire il suo esempio, se si vorrà comportare in maniera buona, in maniera virtuosa.
Iniziamo a scorgere le caratteristiche della morale kantiana: essa è fondata sulla ragione e per questo  è una morale formale: la ragione ci indica la forma, ma non il contenuto delle azioni morali; essendo fondata esclusivamente sulla ragione, sarà una morale rigoristica, che escluderà le inclinazioni, le passioni, i sentimenti, i desideri, gli istinti dell’uomo; essendo fondata sulla ragione presenta ancora un’altra caratteristica forte, di tipo illuministico: è una morale universale, come universale è la ragione. Tutto questo fa dell’etica kantiana uno dei punti più alti di tutta la tradizione filosofica. Prima di Kant e dopo di Kant troviamo morali di ispirazione diversa, fondate sul cuore, fondate sui sentimenti, e quindi tendenzialmente soggettive, e questa è anche una tendenza prevalente oggi, quando spesso si sostiene che ognuno si deve comportare a proprio arbitrio. Per Kant, invece, il comportamento deve essere ispirato alla propria interiorità, ma non alla propria soggettività in generale: l’uomo è un essere composito, e deve farsi guidare da quella parte della propria interiorità che è la ragione, la quale è in contrasto con le altre tendenze. Un’ulteriore caratteristica della morale kantiana, che scaturisce anch’essa dalla centralità della ragione, è l’autonomia: ritroviamo la ragione in noi stessi, di conseguenza la morale kantiana è una morale della libertà, è una morale autonoma. Obbedendo alla voce della ragione, obbedisco a una voce che trovo all’interno di me stesso, e quindi sono autonomo (dal greco autós, se stesso, e nómos, legge: mi do la legge da me stesso, non ritrovo la legge all’esterno, non sono dipendente da costrizioni esterne, di conseguenza sono libero, in quanto la libertà consiste appunto nell’assenza di costrizioni esterne).
Avrete notato come, partiti dalla ragione, abbiamo parlato di uguaglianza, di universalità, ora di libertà: emergono due delle tre parole d’ordine della Rivoluzione francese: libertà, uguaglianza, fratellanza. Kant si delinea come un pensatore attento alla Rivoluzione francese. Era metodico, faceva sempre la stessa passeggiata per le strade di Königsberg, tanto che si dice che i suoi concittadini regolassero gli orologi sui passaggi del filosofo, il quale una sola volta deviò dal percorso che seguiva ogni giorno, quando, in attesa di un dispaccio sullo sviluppo degli eventi della Rivoluzione, si inoltrò su una strada di campagna per andare incontro al corriere che portava le notizie. Fu l’unica volta che abbandonò il suo percorso abituale. È significativo che Kant abbia aderito agli ideali della Rivoluzione francese. Questo aspetto è stato oggetto di una ricerca approfondita dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici: Kant è stato costretto ad autocensurarsi per non incorrere nei rigori della censura prussiana, ma è stato un deciso sostenitore della Rivoluzione francese. Le parole d’ordine della Rivoluzione francese, libertà, uguaglianza e fratellanza, sono tutt’e tre presenti nella sua etica. La libertà, per l’autonomia della morale ispirata alla ragione propria di ogni uomo; l’uguaglianza, perché la ragione che ispira il comportamento è una facoltà universale; la fratellanza, che troviamo nella seconda formula dell’imperativo categorico, in cui Kant afferma che bisogna trattare gli altri e se stessi sempre come fini e mai come mezzi, quindi bisogna trattare tutti gli altri alla stessa stregua di noi stessi, come noi stessi, come fratelli.
Fatta questa premessa sulle caratteristiche principali della morale kantiana, vorrei proporre i brani che ho tratto dalla Critica della ragion pratica e da La metafisica dei costumi, cioè dalle due principali opere morali di Kant. Mi sembra utile iniziare proprio con la forte sottolineatura dell’esistenza del comando razionale. Dice Kant: «Anche se non vi fossero mai state azioni derivate da questa pura sorgente, non si tratta per noi di sapere se è avvenuto questo o quello, ma di sapere che la ragione comanda per sé, ed indipendentemente da tutti i fatti, ciò che deve avvenire; che quindi azioni, delle quali il mondo non ha forse mai ancora offerto il minimo esempio fino ad oggi e la cui stessa possibilità potrebbe essere messa in dubbio da chi tutto fonda sull’esperienza, sono tuttavia comandate inesorabilmente dalla ragione». Questa affermazione è molto importante: qui Kant prende le distanze da ogni empirismo nell’etica. Nell’etica non conta l’essere, cioè i fatti, bensí il dover essere, e questo è dettato dalla ragione. I fatti possono anche andare contro la ragione e quindi contro la morale, ma non tolgono niente alla validità degli imperativi morali. Siamo in una sfera completamente diversa da quella del concreto esistente: l’empiria, la conoscenza sensibile, l’accumulo di fatti. Può anche darsi che nessun uomo sia mai stato leale in tutta la storia dell’umanità, e quindi che non si possa qualificare neppure un individuo come leale, ma la lealtà è sicuramente un altissimo valore morale; anche se i fatti negassero che sia mai esistito un sol uomo leale, la lealtà varrebbe ugualmente di per sé. Questo appunto afferma Kant nella prosecuzione del brano: «Per esempio la pura lealtà nell’amicizia non è meno obbligatoria per ciascuno, anche se non vi fosse mai stato un amico leale sino al presente, perché questo dovere è implicito, come tale, anteriormente ad ogni esperienza nell’idea d’una ragione che determina la volontà secondo principii a priori. La rappresentazione di un principio oggettivo, in quanto esso costringe la volontà, si chiama un comando (della ragione), e la formula del comando si chiama imperativo». Notate che il linguaggio è asciutto, direi drastico, quello che interessa a Kant è di fondare una morale ancorata nel soggetto, ma insieme oggettiva e quindi universale. Devo agire ispirandomi alla mia ragione, ma essa è uguale alla ragione di tutti gli altri, pertanto, se veramente starò seguendo la ragione, starò identificando un principio oggettivo universale, cioè un principio che tutti devono riconoscere, che tutti gli altri devono seguire. Nella mia interiorità, nella mia soggettività (soggettività sotto forma di ragione), trovo l’universale, come abbiamo già detto a proposito della conoscenza. «Tutti gli imperativi sono espressi con la parola dovere, ed indicano con questo la relazione tra una legge oggettiva della ragione e una volontà che, secondo la sua costituzione soggettiva, non è necessariamente determinata da questa legge». In queste due righe è racchiusa tutta la drammaticità della morale kantiana: la legge del dovere è una legge ogget-tiva, però, «…la volontà, secondo la sua costituzione soggettiva, non è necessariamente determinata da questa legge». C’è una lotta tra la volontà e il dovere, tra la volontà e l’imperativo, tra la volontà e la ragione. La ragione indica inesorabilmente il dovere, qualcosa di universale e di oggettivo, ma non è detto che la volontà si pieghi con scioltezza a seguire l’imperativo della ragione, perché la volontà, che è un’altra facoltà umana, può anche seguire la voce del piacere, la voce del desiderio, la voce della ricerca di felicità, la voce di interessi, di istinti; c’è una continua lotta all’interno dell’uomo, di ogni uomo. L’uomo è un fascio di forze, è complesso. La ragione deve avere la prevalenza, ma ci sono anche altre facoltà che tirano da altre parti, le inclinazioni. Si può pensare al grande modello classico di Platone. Ricorderete che Platone paragona l’anima a una biga alata: c’è l’auriga, la ragione che deve guidare il corso dell’esistenza, ma ci sono anche i cavalli bianco e nero che tirano in altre direzioni. I cavalli del mito platonico simboleggiano passioni e istinti. Kant si rifà al modello platonico: l’uomo non è monolitico, non è tutto di un pezzo, si potrebbe dire, bensí un fascio di forze che vanno in direzioni diverse. La ragione deve prendere il comando di queste forze. Nell’espressione che usa a questo proposito, Kant è estremamente rigido. Questo si spiega con la sua formazione, con la sua nascita prussiana, con la sua estrazione religiosa di stampo protestante radicale (Kant è nato in una famiglia pietista). Il protestantesimo per sua natura è già una confessione religiosa che dà spazio al rigorismo etico. È importante che lo sottolineiamo per capire bene la genesi della posizione di Kant. Per Kant, in quanto protestante, in quanto pietista, l’uomo nasce afflitto dal “male radicale”, dal peccato originale, come aveva predicato Lutero. Questo aspetto dell’etica protestante viene esasperato da Kant: l’uomo ha un male radicale, alla sua radice c’è qualche cosa che lo inquina, tende a farlo deviare, tende a farlo divergere dalla retta strada. Al contrario di Rousseau, Kant propone una concezione pessimistica dell’uomo. Avendo una natura debole, corrotta, l’uomo deve fare un enorme sforzo per imporsi la virtù; ci vuole un grande rigore morale per raddrizzare, come lui dice, questo fuscello che tende a crescere distorto. Egli riprende la dottrina luterana secondo cui l’uomo è macchiato dal peccato originale, e questa macchia gli impedisce di condurre spontaneamente una vita morale. Per essere buono, l’uomo non può seguire la  propria spontaneità, ma deve combattere con se stesso, deve fare uno sforzo su se stesso.
La filosofia romantica e la letteratura romantica tedesca, che rivalutano anche gli aspetti sentimentali e emotivi, criticheranno Kant a questo proposito. Schiller, il grande poeta romantico, ironizza sulla morale kantiana dicendo che essa consiste nel dover fare quello che uno non vorrebbe fare. Che cosa vuol dire con questo Schiller? Che Kant intende la morale in maniera drammatica, come una lotta continua dell’uomo con se stesso. A questa morale cupa Schiller e il Romanticismo contrapporranno la morale dell’“anima bella”. Per Schiller l’uomo deve armo- nizzare le passioni con la ragione e, secondo l’ideale greco, deve essere un tutt’uno armonioso in cui non ci deve essere una parte che prende la guida in maniera drastica soffocando altre parti anche nobili dell’uomo; i sentimenti vanno elevati e vanno fusi con la ragione fino a che, dice Schiller, il comportamento buono, il comportamento virtuoso, diventi qualche cosa di spontaneo. Per i Romantici, per Schiller, l’uomo deve avere una grazia e una dignità spontanee, deve agire bene non perché dominato da una specie di poliziotto interno, di autorità interiore che continuamente lo fustiga e lo spinge, ma deve agire virtuosamente perché perfettamente armonizzato tra sentimento e ragione; l’individuo, educato alla bellezza, agisce bene spontaneamente, segue la virtù senza costrizione; è persona elegante, mite, aperta verso l’altro non perché si deve continuamente forzare ad essere così, ad essere altruista, ma è altruista perché è riuscito ad armonizzare le sue facoltà e si comporta spontaneamente e naturalmente in maniera morale. In Kant invece c’è una concezione fortemente antagonistica, drammatica: l’uomo deve combattere continuamente contro le inclinazioni, la volontà di sua natura tende a recepire anche altri contenuti oltre il bene indicato dalla ragione.
La ragione, dicevamo, si fa sentire sotto forma di imperativi. «Se gli imperativi sono condizionati, se cioè determinano la volontà non semplicemente come volontà, ma soltanto in vista di un effetto desiderato, sono imperativi ipotetici. – Gl’imperativi ipotetici rappresentano la necessità pratica di un’azione possibile come mezzo per qualche altra cosa che si vuole (o almeno è possibile si voglia) conseguire». Gli imperativi non hanno tutti lo stesso valore: vi sono gli imperativi ipotetici e l’imperativo categorico. Quello che ci riguarda dal punto di vista morale è l’imperativo categorico; gli imperativi ipotetici non sono imperativi morali, ma solo pratici. Stiamo parlando di un’opera che si chiama Critica della ragion pratica, che tratta di tutto l’agire: solo una parte delle azioni dell’uomo riguardano il bene, e sono le azioni morali poste sotto l’egida dell’imperativo categorico, ma la maggior parte delle azioni sono moralmente neutre e sono soggette agli imperativi ipotetici. Kant distingue gli imperativi ipotetici in due specie: gli imperativi dell’abilità e quelli della prudenza. Gli imperativi dell’abilità sono quelli che implicano di usare un certo strumento per raggiungere uno scopo, gli esempi possono essere tanti e sono banalissimi: se voglio scrivere, devo usare la penna, se voglio andare a Roma, devo prendere un treno. È chiaro che c’è un’ipotesi che subordina l’imperativo “devo usare la penna”, e cioè l’ipotesi che io voglia scrivere. Questi imperativi riguardano soltanto gli strumenti, i mezzi. Gli imperativi puramente tecnici, dell’abilità, gli imperativi ipotetici sono quelli che dominano la vita pratica di oggi. Sono convinto che Kant può essere molto utile per smascherare i limiti del modo di vivere impostoci dalla società dei consumi, in quanto egli considera il piano degli strumenti insignificante e subordinato. Per Kant quello che conta è “il regno dei fini”. Oggi per lo più, anche fra i giovani, non si pone mai il problema del fine e del significato di ciò che si vuole conseguire. Viviamo in una civiltà fondata sulla razionalità strumentale: ci sono formidabili strumenti tecnici per poter raggiungere fini che però non vengono posti in discussione. La nostra è una società in cui viene evitato il discorso razionale sui fini, sul perché bisogna vivere in un certo modo, su quali dovranno essere le finalità dell’esistenza, su quali dovranno essere le finalità dell’umanità in grande. Per Kant invece tutto è orientato verso il fine dell’uomo. Il fine dell’uomo è quello dell’autoperfezionarsi, cioè di migliorare la propria umanità. L’organizzazione del mondo contemporaneo in questo ha sconfitto Kant: gli uomini non si pongono il problema dei fini, e nei loro rapporti reciproci si usano come strumenti, vige una strumentalizzazione continua degli altri, e siamo spinti anche a una strumentalizzazione di noi stessi. Il prossimo non viene visto nella sua dignità di altro essere umano che ha la stessa possibilità di porsi fini che ho io; l’altro è semplicemente uno strumento. In questo senso è stato detto che la vittoria nella società contemporanea non è stata di Kant e della Critica della ragion pratica, ma di un avversario molto sottile di Kant, il marchese de Sade. Il marchese de Sade, da cui viene il termine che indica la patologia psicologica del sadismo, il godere nel fare del male agli altri, non era semplicemente un personaggio cinico, ma anche un pensatore sottile, e in alcune sue opere si è divertito a capovolgere la morale kantiana. Questa è orientata sul fatto che l’uomo deve essere sempre considerato come un fine in sé, l’uomo ha una sua dignità che gli viene dal fatto di essere dotato di ragione: ogni uomo deve essere rispettato come un valore in sé. Invece Sade argomenta il contrario: ogni uomo è uno strumento, ogni uomo ha valore soltanto in quanto mi serve per qualche cosa, se non mi serve a niente lo posso anche sopprimere, o lo posso sopprimere perché mi è utile sopprimerlo, ma in ogni caso l’altro è sempre uno strumento. Nel nostro secolo la Scuola di Francoforte ha rilevato che, per certi aspetti, la vittoria nel mondo contemporaneo non è stata della morale kantiana, ma della morale antagonista a quella di Kant, la morale del marchese de Sade. Nel nazismo, nei grandi fenomeni bellici della nostra epoca, e non solo in questi, i nemici, gli altri, sono semplicemente strumenti, non c’è rispetto dell’altro in quanto altro essere umano: l’altro essere umano è considerato come un oggetto da utilizzare. Molti fenomeni della nostra epoca si potrebbero mettere sotto l’egida di Sade, come ha fatto anche con molta acutezza Pierpaolo Pasolini, il grande scrittore e regista italiano scomparso tragicamente. Viviamo in una civiltà in cui sono seguiti solo gli imperativi ipotetici, cioè gli imperativi che ci indicano gli strumenti per raggiungere un fine, la validità del fine non viene messa in discussione.
Continuiamo a leggere Kant: «Tutte le scienze hanno una parte pratica, che si compone di proposizioni in cui si afferma che qualche fine è possibile per noi, e d’imperativi che indicano come quel fine possa essere conseguito. Questi possono perciò chiamarsi in generale imperativi dell’abilità. Le prescrizioni che segue il medico, per guarire radicalmente il suo malato, e quelle che segue l’avvelenatore per uccidere un uomo con certezza, sono di egual valore in questo senso, che le une e le altre servono ad attuare pienamente il loro scopo». Questo esempio fa capire bene la neutralità morale dell’imperativo ipotetico: il medico cha ha un fine buono, quello di guarire, e un avvelenatore che ha un fine cattivo, quello di uccidere, dal punto di vista dell’imperativo ipotetico sono equivalenti, l’uno e l’altro si porranno il problema di qual è lo strumento più adatto per il loro scopo. L’imperativo ipotetico è neutro dal punto di vista morale.
«Vi è d’altra parte uno scopo, che si può supporre come reale in tutti gli esseri ragionevoli (in quanto si applicano ad essi degli imperativi, in quanto sono cioè esseri dipendenti), uno scopo quindi che non soltanto essi possono proporsi, ma di cui si può con tutta sicurezza supporre che essi se lo propongono tutti effettivamente per una necessità naturale, e questo scopo è la felicità. E si può dare il nome di prudenza nel senso più stretto della parola all’abilità nella scelta dei mezzi per il proprio massimo benessere». Questo è il secondo e ultimo tipo di imperativo ipotetico: l’imperativo della prudenza. Kant sostiene che tutti gli uomini tendono al loro benessere, alla loro felicità, e quindi ci saranno imperativi che riguardano la ricerca della felicità, il perseguimento di questo fine, ma egli nega a questi imperativi il valore supremo di imperativi assoluti. «Per esempio dite a qualcuno ch’egli deve lavorare e risparmiare in gioventù, per non soffrire stenti nella vecchiaia: questo è, certo, per la volontà un precetto giusto e anche importante. Ma è facile vedere che la volontà qui è rinviata a qualche altra cosa, di cui si suppone ch’essa la desideri; e questo desiderio dev’essere lasciato all’arbitrio dell’agente stesso, sia che egli preveda altre risorse all’infuori di quelle che gli derivano dalle ricchezze già acquistate, sia che non speri di diventar vecchio, sia che pensi di rassegnarsi un giorno, in caso di bisogno, a sbarcare il lunario alla peggio». Kant voleva dire questo: l’imperativo della felicità, del benessere personale, in fondo è un imperativo soggettivo, non si può pretendere di elevarlo a imperativo universale valido per tutti gli uomini; tutti ricercano il proprio benessere, ma ognuno a modo suo, è un fatto decisamente limitato alla persona, alla soggettività in senso individuale. «La ragione, che sola può fornire regole implicanti la necessità, dà certo carattere di necessità anche a questo suo precetto (se no, non sarebbe imperativo); ma tal necessità è soltanto soggettivamente condizionata e non può esser supposta in egual grado in tutti i soggetti». Ognuno cerca questa felicità a modo suo, quindi gli imperativi della prudenza sono imperativi soggettivi, non siamo ancora alla sfera morale, alla sfera razionale universale che è solo dell’imperativo categorico. Continuiamo a leggere: «È proprio della legislazione della ragione questo, di non esigere che sia supposto altro che se stessa…». Che vuole dire? Quando l’uomo vuole la felicità, vuole il benessere, in fondo vuole qualcosa di esterno, non è ancora il volere la ragione per la ragione, cioè il bene identificato dalla ragione per il bene. Per Kant, invece, l’autonomia della morale consiste proprio in questo: che si vuole qualche cosa di interiore che non rinvia ad altro, il bene per il bene, la ragione per la ragione, non si vuole qualche cosa per qualcos’altro, ma perché è un bene in se stesso. Per la mia felicità posso desiderare, per esempio, di accumulare una somma di denaro, oppure di procurarmi la salute fisica, ma allora desidererò la salute fisica per essere felice, il denaro per essere felice, cioè un mezzo per qualche cosa di altro, invece il bene, il vero bene morale, è fine in sé, non è uno strumento per raggiungere un fine che sta fuori, che sta oltre. Il vero bene morale, la vera virtù, è premio a se stessa, è fine a se stessa, non è uno strumento per qualche cosa d’altro.
«… È proprio della legislazione della ragione questo, di non esigere che sia supposto altro che se stessa, perché la regola può valere oggettivamente e universalmente, solo se si afferma indipendentemente da quelle condizioni contingenti e soggettive, che distinguono un essere ragionevole da un altro. Si ha allora l’imperativo categorico, che comanda immediatamente una certa condotta, senza assumere a principio come condizione un altro scopo da conseguire mediante quella condotta». La caratteristica dell’imperativo categorico è di essere fine a se stesso, non mezzo per arrivare a qualche fine esterno. È fine in sé. Arriviamo alla famosa prima formula dell’imperativo. L’imperativo categorico è solo uno; infatti esso consisterà nell’applicare la forma della razionalità a tutte le azioni. Quale sarà la forma della razionalità? L’universalità. Agire moralmente che cosa vorrà dire? Agire secondo ragione. Ma agire secondo ragione, significa agire in maniera universale, agire in modo che chiunque altro al posto mio per agire moralmente debba fare la stessa cosa che ho fatto io. Bisogna agire in modo che la massima della propria azione (per massima s’intende il principio soggettivo specifico, la regola estraibile dal comportamento specifico) possa valere come legge universale. In altri termini, la prima formula dell’imperativo categorico implica questo: il procedimento che sto seguendo, che Kant chiama massima, il modo come potrei definire l’azione che sto facendo, posso pretendere che debba valere per legge universale, cioè che non debba valere solo per me in questa circostanza, ma per qualunque altro essere umano si trovi in circostanze analoghe. Devo poter essere sicuro che la regola, che sto seguendo implicitamente anche se non me ne accorgo, possa valere come regola universale, cioè che qualunque essere umano, per essere veramente morale, cioè razionale, la debba seguire. Si tratta di una morale fortemente improntata all’universalità. Ora dalle varie formule dell’imperativo cerchiamo di capire meglio in che cosa consiste questa universalità.
La prima formula dice: «Agisci soltanto secondo quella massima che tu nello stesso tempo puoi volere che divenga una legge universale»; c’è una accentuazione della universalità oggettiva: quello che fai deve valere come legge universale. Nella seconda formula dell’imperativo categorico è presente invece una accentuazione della universalità soggettiva: siamo sempre all’interno dell’universalità, ma lo stesso imperativo viene riformulato dal punto di vista del soggetto che si pone un fine. Infatti Kant dice: «Agisci in modo da trattare sempre l’umanità, così nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre come un fine, e mai come un mezzo». Questa è la trasposizione filosofica del comandamento cristiano secondo il quale, appunto, bisogna non fare agli altri quello che non si vorrebbe fosse fatto a se stessi, o, meglio, si deve fare agli altri quello che si vorrebbe fosse fatto a se stessi. L’altro ha la stessa dignità mia, dev’essere considerato non strumento, ma fine, come io considero me stesso un fine: tutti gli uomini hanno pari dignità, perché tutti gli uomini sono ugualmente dotati di ragione. “Ama il prossimo tuo come te stesso”: tu sei un fine, ti consideri e ti devi trattare come un fine, non ti devi mai abbassare a essere strumento e non devi mai usare un altro. Dice Kant: «L’imperativo pratico è formulabile nel modo seguente: Agisci in modo da trattare sempre l’umanità, così nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre come un fine, e mai come un mezzoIl principio: – agisci riguardo a ogni essere ragionevole (a te e agli altri) in modo che nella tua massima esso valga sempre come fine in se stesso, è in fondo identico a quest’altro: – agisci secondo una massima che contenga nello stesso tempo in sé la possibilità di valere universalmente per tutti gli esseri ragionevoli. Infatti, dire che io nell’uso dei mezzi per qualsiasi fine debbo sottoporre la mia massima a questa condizione restrittiva che essa possa valere universalmente come una legge per ogni soggetto, è lo stesso che dire: il soggetto dei fini, cioè l’essere ragionevole stesso deve servire di principio a tutte le massime delle azioni non mai semplicemente come mezzo, ma come suprema condizione limitativa nell’uso di tutti i mezzi, ossia sempre nello stesso tempo come un fine». Qui il linguaggio può sembrare complesso, ma in queste parole c’è un insegnamento semplice e grandioso: l’unico fine che l’uomo si può porre è l’uomo stesso. Non c’è nessun fine superiore all’uomo. In questo senso, Kant si rivela un continuatore degli ideali più alti di tutto l’Umanesimo della civiltà europea moderna: l’uomo è l’essere dotato di maggiore dignità possibile, e il fine di tutte le azioni umane deve essere appunto l’uomo stesso, cioè il rispetto dell’essenza dell’uomo e il perfezionamento dell’umanità.
La terza formula è una sintesi delle prime due: la prima era sbilanciata sull’oggettivo; la seconda sul soggettivo; la terza dice: «Agisci in modo che la tua volontà possa valere come legislatrice universale». La volontà, che è qualcosa di soggettivo, deve valere come qualche cosa di universale, cioè di oggettivo. Nella terza formula, che è la più sintetica, la più chiara di tutte, il piano soggettivo universale e il piano oggettivo universale sono pienamente fusi. La volontà del singolo deve diventare legislatrice universale. Oggi non è facile comprendere questa affermazione perché per volontà, per singolo, per individuo, nel mondo contemporaneo si intende qualche cosa che è agli antipodi rispetto a Kant, cioè si intende l’arbitrio soggettivo. Si pensa che  l’individuo debba poter agire nel modo che crede, fare le cose che crede, ecc. Invece per Kant affidare tutto all’individuo non significa affidare tutto all’arbitrio, bensí affidare tutto alla parte più nobile dell’individuo e cioè alla ragione. In questa prospettiva, l’individuo coincide nei suoi punti di riferimento essenziali con gli altri individui. Oggi riferirsi alla volontà di una persona significa riferirsi a qualche cosa di assolutamente arbitrario, che varia da individuo a individuo, invece la volontà con la “V” maiuscola che si è appropriata dei contenuti della ragione per Kant è come l’Io penso, cioè vale per tutti gli uomini, è un qualche cosa di soggettivo ma di universale contemporaneamente. La posizione etica di Kant si spiega anche col fatto che egli vive nel periodo entusiasmante della Rivoluzione francese, in cui la borghesia europea spera di poter portare la liberazione e la fratellanza a tutta l’umanità. Kant è un grande filosofo dell’epoca della Rivoluzione francese. Spera che il comportamento di ognuno si possa armonizzare col comportamento di tutti gli altri in nome della ragione. Viviamo oggi in un’epoca in cui le parole d’ordine più avanzate della Rivoluzione francese sono state sconfitte. Dopo Kant hanno preso il sopravvento le tendenze più individualistiche. Per esempio già Schopenhauer ride di Kant, e si affida a una morale emozionale puramente individuale. Dopo Kant, dopo l’idealismo soprattutto, inizia una fase di decadenza che porta l’individuo a scostarsi dall’universale, e oggi “individuo” coincide con “arbitrio”, mentre per Kant “individuo” coincide con “ragione” e con “universalità”,  e  questo  si  spiega  con  la  grande  speranza che gli ideali rivoluzionari, libertà, uguaglianza, fratellanza, possano veramente unire tutta l’umanità e portarla in un’epoca nuova.
«Il fondamento, dunque, di ogni legislazione pratica risiede oggettivamente nella regola o nella forma dell’universalità, che (secondo il primo principio), la rende capace di essere una legge; e soggettivamente nel fine. Ma il soggetto di tutti i fini è (conforme al secondo principio) l’essere ragionevole come fine in sé. Da ciò risulta il terzo principio pratico del volere, come condizione suprema della sua conformità con la ragion pratica universale: cioè: [agisci secondo] l’idea della volontà di ogni essere ragionevole come legislatrice universale.Io chiamo questo principio il principio dell’autonomia della volontà, in opposizione ad ogni altro, che per questo io riferisco all’eteronomia». Qui Kant fonda il concetto dell’autonomia della sua morale. Autonomia in due sensi: autonomia significa libertà; la ragione è un contenuto interiore, e l’uomo che dipende dalla ragione dipende solo da se stesso. Kant contrappone la sua posizione all’eteronomia, cioè al dipendere non da sé ma da altro. Ma Kant in quello che considera “altro” fa rientrare per esempio anche il piacere, la sensibilità, la paura di un castigo eterno, ecc. Se invece di agire in base alla ragione si agisce in base al piacere, per Kant si sta agendo non in base alla propria libertà e autonomia; se si sta agendo in base al piacere si finisce con l’essere in qualche modo schiavi del piacere e cioè si è eteronomi, non autonomi. Anche se il piacere è qualche cosa che può essere molto personale, per Kant questo qualche cosa ci porta a dipendere da altro da noi; così se dipendo da emozioni come la paura, eccetera, sono soggetto a qualche cosa di esterno. Per Kant non bisogna dipendere dalle emozioni, non bisogna dipendere dal piacere, ma, per essere liberi, bisogna farsi guidare esclusivamente dalla ragione. Si può pensare a un esempio estremo: consumare droga può portare piacere, ma significa dipendere da qualche cosa di esterno, cioè far venire meno la propria libertà. È chiaro che dal punto di vista della morale kantiana l’assunzione di droga è una forma forte di subordinazione all’esterno e quindi implica rinuncia alla libertà. Drogarsi non implica autonomia, bensí eteronomia. “Autonomia” anche in un altro senso, più semplice: le morali che noi conosciamo per lo più sono morali eteronome, in cui il precetto morale viene dall’esterno, viene da una chiesa, viene da un’autorità, viene da un profeta, viene da un libro sacro. L’autonomia della morale kantiana invece implica che la legge morale si ritrova dentro l’uomo, non in un libro sacro, in una setta, in una gerarchia ecclesiastica, in un precetto che viene dall’esterno.
Consideriamo ora un altro punto decisivo: l’intenzionalità della morale. «La buona volontà è tale non in grazia dei suoi effetti o dei suoi successi… », si delinea un altro tema importante: non è detto che l’agire morale abbia successo, anzi l’uomo morale è spesso sconfitto. Posso tentare un’azione buona e essere impedito di attuarla, ma ciò non toglie niente alla mia bontà: basta avere l’intenzione buona. La morale kantiana è una morale decisamente intenzionale. Che cosa significa? Per essere buono, devo fare in modo che la mia volontà aderisca all’imperativo della ragione, ma si tratta di un’operazione tutta interna, perché la volontà è qualche cosa di interiore, la ragione pure è qualche cosa di interiore, e l’esterno è fuori gioco. Per essere buono devo far aderire la mia volontà all’imperativo dettato dalla mia ragione, se poi le condizioni esterne mi impediscono di agire bene, questo nulla toglie alla mia virtù. Se, per esempio, voglio aiutare una persona che è strangolata da un usuraio, ma non ho i capitali per liberarla, questo non toglie niente alla mia bontà: l’importante è che io voglia aderire all’imperativo della ragione. Oppure posso essere ammalato, posso essere in un momento di debolezza fisica, non riesco a impedire, per esempio, che una persona si faccia male, oppure che sia aggredita, vorrei evitarlo, ma sono bloccato dalla debolezza, dalla malattia, ecc., allora, anche se non riesco a realizzare l’intenzione, l’importante è che io abbia voluto che ci fosse una corrispondenza tra l’imperativo morale, tra l’imperativo categorico come si configurava in quel momento, e la mia volontà.
È opportuno a questo punto ribadire che l’imperativo categorico è uno solo: agisci in modo che la massima della tua azione possa valere come legge universale. Le massime delle azioni non dipendono dai contenuti, abbiamo detto, quei famosi contenuti che sono esterni a noi e possono essere infiniti. Quindi la morale di Kant serve di orientamento in qualunque circostanza, in qualunque epoca storica, in qualunque situazione. L’importante è che in ogni circostanza io cerchi di comportarmi come secondo me si dovrebbe comportare ogni altro essere umano che usi la ragione. I contenuti possono essere, anzi, sono senz’altro infiniti; possono variare da circostanza a circostanza, ma ho una specie di bussola per orientarmi da me in ogni singola situazione. In questo senso Kant si può paragonare a Socrate. Socrate ripeteva: «Conosci te stesso», non dava una regola morale, ma spingeva ciascuno a cercarla in se stesso. Così la morale di Kant non detta contenuti di azioni morali: i contenuti sono vari e ognuno si orienta in base alle circostanze con la propria bussola interiore, con la propria ragione. Ora torniamo però all’intenzionalità. Dice Kant: «La buona volontà è tale non in grazia dei suoi effetti o dei suoi successi, né della sua attitudine a conseguire questo o quello scopo proposto, ma soltanto per il volere, ossia per se stessa; e, considerata per sé sola, dev’essere stimata senza paragone superiore a tutto ciò che si può fare per mezzo di essa in favore di qualche inclinazione o anche, se si vuole, in favore della somma di tutte le inclinazioni. Quando pure per una speciale avversità della sorte o per l’avarizia d’una natura matrigna venisse a mancare a questa volontà ogni mezzo per attuare i suoi disegni; quand’anche essa non ricavasse nulla dai suoi più intensi sforzi; quand’anche non dovesse rimanere che la sola buona volontà (e s’intende che questa non è semplice velleità, ma implica l’uso di tutti i mezzi che sono a nostra disposizione) [questa volontà non deve rimanere astratta: fino a dove posso arrivare con le mie forze ci devo arrivare; posso non avere i soldi per aiutare la persona in difficoltà, posso non avere le forze per aiutare la persona aggredita, ma devo usare tutte le mie forze fino a dove arrivano], essa brillerebbe tuttavia per sé stessa, come una pietra preziosa, poiché trae da sé medesima tutto il suo valore». La volontà buona vale per sé e non per il successo esterno, perché il successo esterno è un fatto di contenuto, del mondo esteriore. «L’utilità o inutilità sua non può nulla aggiungere e nulla togliere al suo valoreL’utilità sarebbe soltanto come una incastonatura del gioiello, che può renderlo più maneggevole negli scambi o attirare su di esso l’attenzione di coloro che non sono ancora esperti conoscitori, non già raccomandarlo agli inten- ditori e determinarne il valore»: il successo dell’azione è la montatura che rende più bello il gioiello, ma il gioiello è la pura volontà.
Anche l’intenzionalità risale in ultima analisi alla formazione protestante di Kant. La grande polemica che ha portato alla riforma di Lutero è centrata su questo: non ci si salva per opere, ma per fede. Quello che conta per Lutero è il puro fatto intenzionale, cioè l’amare Dio, l’affidarsi fiduciosi alla grazia divina; tutte le opere, le opere buone, peggio ancora naturalmente per Lutero se erano trasformate in indulgenze, non valgono a niente. Nel fare queste affermazioni Kant rivela la sua natura di protestante: per il protestantesimo, ripeto, le opere non contano: quello che salva, quello che rende virtuosi è la fiducia in Dio. Questa concezione trapassa in Kant: il fatto che l’azione morale abbia successo pratico è una montatura aggiuntiva al gioiello, ma non ha un valore sostanziale. Ciò che conta è l’intenzione della retta coscienza, l’intenzione della volontà buona.
«La dignità del dovere non ha nulla che fare con le gioie della vita; essa ha la sua propria legge, essa ha anche il suo proprio tribunale…». Viene respinta ogni forma di eudemonismo. L’eudemonismo è una visione ottimistica per cui la virtù e la felicità coincidono: l’uomo virtuoso è anche un uomo felice, se non altro perché è in pace con se stesso.  Per Kant  invece l’eudemonismo non vale e la virtù può anche non essere ricompensata: per condurre una vita virtuosa si può anche soffrire, si può anche procedere di rinuncia in rinuncia, non c’è conciliazione di virtù e felicità. In proposito Kant è drastico: «Un uomo onesto, colpito da una grande sventura ch’egli avrebbe potuto evitare se avesse voluto trascurare il proprio dovere, non è ancora sostenuto dalla coscienza di aver mantenuto e rispettato nella sua persona la dignità umana, di non aver da arrossire di se stesso o da temere lo sguardo interno del proprio esame? Questa soddisfazione non è la felicità, senza dubbio, non ne è neanche una minima parte. Nessuno infatti s’augurerebbe di aver occasione di provarla, e forse neanche desidererebbe la vita in tali condizioni. Ma egli vive e non può sopportare di essere innanzi ai propri occhi indegno della vita. Quella soddisfazione è l’effetto d’un rispetto per qualcosa di ben diverso dalla vita, e al cui confronto anzi la vita con tutte le sue gioie non ha proprio alcun valore. Quell’uomo vive ormai solo per dovere, e non perché provi il minimo gusto della vita». Si respinge anche l’ipotesi di avere un gusto per la vita, ma in questo tipo di possibilità Kant vede la grandezza dell’uomo. L’uomo, a prescindere dal gusto per la vita, si può dedicare a grandissimi ideali che lo trascendono completamente, non lo riguardano nella sua persona, e per questo testimoniano del suo destino morale, della sua capacità di sganciarsi dal piano banale, empirico. Si può rinunciare alle gioie della vita, ma si prova intima soddisfazione per fatti completamente sganciati dalla propria corporeità. E Kant si conforta quando nota che tanta parte dell’Europa partecipa con slancio agli entusiasmi della Rivoluzione francese: questa, dice lui, è una testimonianza del destino morale dell’uomo, in quanto si tratta di un trasporto per cose che non portano nessun vantaggio personale e nessuna gioia personale.
Continuiamo a leggere Kant: «Se la determinazione della volontà ha luogo conforme alla legge morale, ma solo mediante un sentimento, di qualunque specie questo sia, che dev’essere presupposto perché la volontà abbia un sufficiente motivo di determinazione, e se quindi essa non si determina per la legge, allora l’azione avrà un carattere di legalità, ma non di moralità». Si delinea l’ultima caratteristica che voglio sottolineare della morale kantiana: essa è una morale estremamente rigorosa, o, meglio, rigoristica. Che cosa significa questo? L’uomo buono deve agire bene per amore del bene. Punto e basta. Se agisce per ossequio alla legge, per un motivo esteriore, allora sta agendo per legalismo, ma non per moralità. La volontà buona deve seguire l’imperativo categorico solo perché lo trova razionale, non per altri motivi. Due azioni possono essere tutt’e due ispirate alla legge, ma possono non essere tutt’e due morali. Perché un’azione sia morale deve essere compiuta con la propria intima adesione, con la propria intima convinzione. Ricorriamo a un esempio: in una stessa situazione due individui possono non uccidere un altro, non uccidere qualcuno che li stava aggredendo, ma uno lo fa per una partecipazione all’imperativo categorico, l’altro per timore della legge, perché pensa che possa essere incolpato per eccesso di legittima difesa. Tutti e due hanno agito secondo legalità, perché tutti e due non hanno proceduto a rispondere in maniera esagerata all’aggressione, ma uno ha agito moralmente, perché era intimamente convinto e seguiva il dettame dell’imperativo categorico, l’altro agiva soltanto per paura di incorrere in una pena e quindi agiva legalmente, ma non moralmente. Ci può essere una divaricazione tra legalità e moralità. «Conservare, ad esempio la propria vita è un dovere, e inoltre cosa per cui ognuno ha un’inclinazione immediata. Ora appunto per questo la cura spesso angosciosa che la maggior parte degli uomini vi dedica non ha nessun valore interiore, e la loro massima non ha nessun contenuto morale». È spontaneo salvare la propria esistenza. Questo fatto, pur corrispondendo a una legge morale che implica la salvezza di noi stessi, l’integrità del nostro corpo, per lo più non comporta un atteggiamento morale. Si bada al proprio corpo, alla propria salvezza, ma non per seguire un imperativo; lo si fa spontaneamente per un istinto di sopravvivenza. Esteriormente ci si sta comportando secondo un principio morale, ma, siccome non si sta aderendo intimamente a un imperativo categorico, non si sta agendo moralmente. «Essi conservano la loro vita conforme al dovere, ma non per dovere», cioè stanno seguendo legalmente la norma per cui non ci si deve uccidere, si deve badare al benessere del proprio corpo, ma lo stanno facendo in maniera conforme al dovere, non perché lo sentano come un dovere. «Invece se delle sventure o un dolore senza speranza hanno tolto ad un uomo ogni gusto per la vita, se questo infelice, forte d’animo, e più irritato della sua sorte che non abbattuto o scoraggiato, desidera la morte e tuttavia conserva la vita, senza amarla, e non per inclinazione o per timore, ma per dovere, allora la sua massima avrà un contenuto morale». Se uno conserva la propria esistenza in condizioni normali non si accorge che sta aderendo anche a un imperativo morale, quello di mantenersi in vita; sta agendo automaticamente, per legalità, ma non per moralità, non sta rendendosi conto che deve aver cura di sé anche per un dovere morale. Quando però, per seguire l’esempio drammatico di Kant, un uomo è gravemente ammalato, è arrivato a un punto per cui sarebbe portato a odiare la vita, eppure continua a mantenersi in vita, allora scatta la norma dell’imperativo per cui si mantiene in vita non per un automatismo vegetale, ma per una scelta morale.
Veniamo ora alla parte finale della Critica della ragion pratica, quella in cui Kant ha fondato il primato della ragion pratica sulla ragion pura. Mentre nella prima Critica Kant tiene una posizione agnostica, cioè dice non si può conoscere niente di Dio e dell’anima, in quanto le categorie dell’intelletto si applicano solo ai materiali dell’intuizione, invece nella Critica della ragion pratica egli giunge a Dio e all’immortalità dell’anima, ma per una via che non è conoscitiva, è una via diversa; quella dell’esigenza dell’uomo morale. Questa esigenza si esprime con postulati. Il termine è preso della geometria; i postulati sono punti di partenza indispensabili per le dimostrazioni, ma non si possono a loro volta dimostrare. Si devono ammettere per veri, e in qualche modo se ne avverte la verità perché attraverso di essi si possono dimostrare tante altre cose, ma non si possono dimostrare essi stessi come veri. Ora, Kant nella Critica della ragion pratica arriva alla libertà, all’immortalità dell’anima e a Dio, come postulati morali, cioè come esigenze ineliminabili per la vita morale, come i postulati geometrici sono esigenze ineliminabili per la geometria perché se non si parte da essi le catene di teoremi non si possono sviluppare. Il ragionamento di Kant è questo: è vero che non si possono dimostrare, ma se attraverso di essi si possono dimostrare tante altre verità, indirettamente si può dire che sono veri anche i postulati in geometria, e lo stesso vale anche nella morale.
Il primo postulato è quello della libertà. Nella Critica della ragion pura non abbiamo trovato la libertà dell’uomo, che è anzi condizionato dalla cosa in sé, non può fare altro che porre ordine tra i fenomeni, ma è un anello della catena causale della natura. Nella Critica della ragion pura non c’è alcun accenno alla libertà umana, anzi, l’esistenza della libertà nel mondo è una di due possibilità delle antinomie della cosmologia razionale; ma per Kant non si può decidere se una antinomia o l’altra sia vera. Per Kant, insomma, nella Critica della ragion puranon c’è alcuna libertà. Invece nella Critica della ragion pratica  egli afferma che il primo postulato per l’uomo morale è la libertà. Il motivo è semplice: se non si ipotizza la libertà non c’è neppure moralità, in quanto l’essere morale implica lo scegliere tra il bene e il male, tra il vizio e la virtù. Se fossimo costretti da qualche meccanismo automatico alla virtù, se fossimo creature angeliche, non saremmo liberi e non saremmo morali. Se fossimo coartati automaticamente dalla nostra natura a seguire per forza la virtù, non ci sarebbe libertà. L’uomo si muove invece tra quel male radicale di cui abbiamo detto, cioè il peccato originale, se vogliamo usare i termini teologici, e la possibilità di seguire l’imperativo della ragion pratica. Abbiamo detto che l’uomo vive continuamente una lotta tra l’imperativo categorico e le inclinazioni. Se vive questa lotta, ciò vuol dire che l’uomo può scegliere due strade: vizio e virtù, bene e male. Perché ci sia una vita morale, ci dev’essere la possibilità di scelta tra queste due alternative. L’animale, che segue l’istinto in maniera automatica, è amorale, è fuori della morale, è al di qua del bene e del male, mentre invece la scelta tra bene e male implica la libertà. La moralità, che è scelta per il bene contro il male, per la virtù contro il vizio, implica la libertà.  «La volontà è una specie di causalità degli esseri viventi in quanto essi sono ragionevoli, e la libertà sarebbe la proprietà di questa causalità, d’agire indipendentemente da ogni causa estranea determinante»: la libertà significa agire indipendentemente da ogni causa estranea determinante; risaliamo all’intenzionalità: anche se le cause esterne mi sono di impedi- mento, sono libero di adeguare, però, la mia volontà all’imperativo della ragione. Provo a fare un esempio drammatico. Ammettiamo che una persona sia paralizzata, e non possa correre a salvarne un’altra che sta andando incontro a un pericolo; la causalità esterna le impedisce completamente di agire, ma questa persona, se vuole con tutte le sue forze salvare chi vede in pericolo, sta adeguando la propria volontà all’imperativo categorico di rispettare l’altro, di amarlo come se stesso, e allora, pur impedita fisicamente, pure impedita dal mondo naturale, dalla causalità esterna, sta vivendo la libertà di essere buona. Si può essere liberi di essere buoni anche se nella pratica non si riesce a fare neppure un millesimo di quel che vorrebbe fare. Per Kant la libertà dell’agire morale rende l’uomo completamente indipendente rispetto al mondo. «La volontà è una specie di causalità degli esseri viventi in quanto essi sono ragionevoli,…». In fondo vuol dire questo: «State attenti che per libertà non intendo lo svincolamento dalle leggi della natura e l’arbitrio. È vero che l’uomo in quanto essere morale non è soggetto alle leggi della natura, ma non vi illudete che nella sfera morale si possa agire a capriccio: la sfera morale avrà le sue leggi come le ha la sfera naturale, e queste leggi saranno le leggi della ragione». Ancora una volta Kant mette in guardia contro il concetto di libertà come arbitrio, come velleità. Per Kant la libertà non è arbitrio, il voler fare quello che pare e piace: la libertà è la razionalità, la libertà coincide con l’agire secondo i dettami della ragione. Agire secondo i dettami della ragione significa non agire a caso e non agire a capriccio, perché la ragione è tutto tranne che caso e capriccio. Faccio un esempio paradossale, per dire che per Kant la libertà coincide con la ragione quindi con qualche cosa che non è l’arbitrio, ma con una restrizione delle possibilità: si è liberi di uscire da questa stanza, ma solo dalla porta, dal balcone purtroppo non si è liberi di uscire perché ci si fa male, anzi ci si può addirittura sfracellare; è chiaro dalle più semplici osservazioni del comportamento che noi seguiamo ogni sorta di leggi quando siamo liberi di agire, se invece interpretassi la libertà nel senso assurdo in cui viene spesso interpretata oggi, cioè di arbitrio totale, questo significherebbe l’equivalente di considerare la libertà come la possibilità di uscire dal balcone. È chiaro che se sono liberose uso quindi la ragione, mi guarderò bene dall’uscire dal balcone, non interpreterò, cioè, la libertà come arbitrio di poter fare tutto quello che voglio, ma come agire secondo quello che è razionale (ed è razionale uscirsene tranquillamente per la porta). Ora, Kant con queste sue affermazioni vuole dire: è vero che l’uomo si distacca dalla sequenza della causalità naturale, è libero, però questa libertà non è l’arbitrio, in quanto la libertà è adesione alla razionalità. «…come la necessità naturale è la proprietà che possiede la causalità di tutti gli esseri sprovvisti di ragione, di essere determinata all’azione dall’influenza di cause estranee». Poche righe dopo, dice: «Pertanto la libertà, quantunque non sia una proprietà del volere conforme a leggi della natura [cioè non ha a che fare con le leggi della natura], non deve tuttavia essere affatto esente da leggi, bensí deve piuttosto essere una causalità secondo leggi immutabili, ma di natura speciale: ché altrimenti una volontà libera sarebbe un non senso».
Gli altri due postulati sono Dio e l’immortalità dell’anima. Come viene fondata l’immortalità dell’anima? «Ma questo progresso infinito è possibile solo sotto il presupposto d’una persistenza infinita, come personalità, dello stesso essere razionale (ciò che si dice immortalità dell’anima)», L’uomo, per i motivi che abbiamo detto poco fa, non riesce a realizzare l’azione morale: ognuno di noi, nonostante gli sforzi, riesce a realizzare solo in maniera minima, se pure vuole agire moralmente, la bontà. Il disagio di ogni uomo che vuole vivere virtuosamente è l’inadeguatezza delle proprie forze, cioè il non riuscire ad agire veramente in maniera morale, e soprattutto il fatto che il mondo è dominato dall’immoralità, non è recettivo rispetto al bene. Per Kant, l’uomo morale, proprio perché vive questa frustrazione dovuta all’intenzionalità della morale, al fatto di avere intenzione di fare il bene e non riuscirci, ha una forte esigenza di postulare, cioè di immaginare, di sperare, che la vita abbia una prosecuzione, che la sua esigenza di perfezionamento e anche di successo nell’azione morale possa continuare all’infinito, che quindi non siano troncati improvvisamente, a un certo punto, la propria tensione morale, il proprio sforzo morale, ma che essi possano proseguire. L’aspirazione dell’uomo al continuo perfezionamento, la sua insoddisfazione per il fatto di non essere all’altezza delle situazioni, di non essere pienamente morale, lo spingono a sperare, a credere nell’immortalità dell’anima, nel fatto che possa avere un cammino infinito ancora da percorrere per realizzare perfettamente il bene. Infine il postulato dell’esistenza di Dio. Anche questo è collegato al discorso che stiamo facendo: «Ora l’essere razionale che agisce nel mondo non è anche causa del mondo e della natura stessa [cioè l’uomo, con la sua ragione, non è causa del mondo e della natura]. Quindi non vi è nella legge morale il più piccolo fondamento per un accordo necessario fra la moralità ed una felicità – ad essa proporzionata – d’un essere appartenente al mondo come parte e perciò da esso dipendente». L’uomo agisce moralmente, il mondo però non l’ha fatto lui, il mondo è refrattario alla sua azione morale e soprattutto il mondo non si concilia con lui e non gli dà soddisfazione, non gli dà la felicità. L’uomo, abbiamo detto prima, può essere virtuoso, ma contemporaneamente può essere anche infelice, può vivere una vita assolutamente priva di soddisfazioni, di gioia, di felicità. «Tuttavia nel compito pratico della ragion pura, un tale accordo è postulato come necessario: noi dobbiamo cercare di promuovere il sommo bene (che deve quindi essere possibile)… È un dovere per noi promuovere il sommo bene, quindi non è solo un diritto, ma un bisogno necessario connesso col dovere il presupporre la possibilità di questo sommo bene. Il quale, poiché ha luogo solo sotto la condizione dell’esistenza di Dio, collega inseparabilmente la esistenza di Dio col dovere; il che equivale a dire che è moralmente necessario ammettere l’esistenza di Dio». L’esistenza di Dio significa l’esistenza di un essere onnipotente nel quale si conciliano la virtù e la felicità, si concilia il voler fare il bene e il realizzare veramente il bene; per la sua onnipotenza Dio viene inteso come colui che tutto può e quindi può effettivamente realizzare il bene, mentre l’uomo vive la frustrazione di voler fare il bene e di non riuscire a realizzarlo.
I tre postulati della ragion pratica pongono questo problema: la Critica della ragion pura ci mostra un uomo condizionato dalla cosa in sé, che è uno dei tanti anelli della concatenazione degli eventi causali, che non è libero e non si può porre il problema di Dio e dell’anima; la Critica della ragion pratica ci mostra l’uomo, invece, libero di agire moralmente, che trova in se stesso la forza dell’azione morale, che trova una via pratica per arrivare a Dio e all’immortalità dell’anima. Tra le due Critiche c’è uno iato, c’è una distanza, c’è una contraddizione. È una contraddizione che Kant tenta di sanare con La critica del giudizio.


CRITICA DEL GIUDIZIO

Kant aveva edificato due grandi costruzioni teoriche, l’una riguardante la conoscenza, l’altra riguardante l’attività pratica e la morale, in contrasto tra di loro. Alla fine della Critica della ragion pratica emerge con chiarezza una forte opposizione con le conclusioni della Critica della ragion pura.  Il tentativo di Kant nella Critica del giudizio è proprio quello di sanare queste contraddizioni. Tale  tentativo comporta lo sforzo di creare una nuova terminologia, il che fa della Critica del giudizio un’opera per certi versi oscura, che si presta a varie interpretazioni, un’opera ancora aperta. Lukács, un importante pensatore del Novecento, ha affermato che tutta l’estetica possibile per l’umanità è contenuta nella Critica del giudizio, ma si tratterà di dipanarla nei tempi venturi: si dovrà sempre attingere a quest’opera se si vorrà considerare i problemi della bellezza e del finalismo della natura.
Nella Critica della ragion pura si presenta un mondo chiuso a ogni spazio di libertà: la visione del mondo dellaCritica della ragion pura è meccanicistica. Il meccanicismo, già sostenuto per esempio da Democrito e da Hobbes, è una visione del mondo secondo la quale la natura procede per una concatenazione di cause ed effetti che non è indirizzata a nessuno scopo. Di solito il sostantivo ‘meccanicismo’ si accoppia con l’aggettivo ‘cieco’. Il meccanicismo è cieco: la natura non ha un fine, non ha alcuno scopo, essa è solo un gioco di cause ed effetti senza finalità. Nella Critica della ragion pura la natura era vista in questa chiave; delle dodici categorie kantiane quella decisiva per l’interpretazione fisica della natura è la causalità. I fenomeni sono tutti concatenati da relazioni causali che non hanno alcuno scopo. Nella Critica della ragion pura si ritrovano dunque il dominio della causalità, il meccanicismo, il determinismo: il cieco gioco di cause ed effetti è necessario, non lascia nessuno spazio alla libertà. La visione kantiana della prima Critica è deterministica: non c’è nessuna libertà. Nella primaCritica, inoltre, Kant sosteneva che l’uomo ha un forte limite: può conoscere soltanto il fenomeno, può conoscere solo il mondo come gli appare in quanto filtrato dalle sue stesse strutture conoscitive: spazio, tempo, categorie e idee, ma non può assolutamente raggiungere la realtà quale è in se stessa. La cosa in sé è inconoscibile. Ilnoumeno è assolutamente al di là delle nostre possibilità di conoscenza. Il mondo è spaccato a metà: ilfenomeno, soggetto alla necessità e al determinismo, e il noumeno, che è un continente oscuro e inattingibile. L’uomo è prigioniero della conoscenza fenomenica.
Nella Critica della ragion pratica, invece, si approda a una visione opposta rispetto a questa, in quanto al meccanicismo della Critica della ragion pura si contrappone il finalismo della ragion pratica (in tutta la storia della filosofia il contrario di “meccanicismo” è “finalismo”). La Critica della ragion pratica presenta uno spiccato finalismo: tutta la vita morale è tesa alla realizzazione del fine del bene. Nella vita morale l’uomo si pone un fine: la virtù, il bene. Anzi, Kant aveva anche parlato di un “regno dei fini”, cioè un regno ideale di tutti gli uomini che si rispettano vicendevolmente, e, seguendo la seconda formula dell’imperativo, si trattano sempre come fini e mai come mezzi. Il regno dei fini è il regno della morale: se la morale si realizzasse pienamente sarebbe il regno della finalità: ognuno sarebbe considerato dagli altri come un fine in sé. Il finalismo della Critica della ragion pratica è opposto al meccanicismo della Critica della ragion pura. Soprattutto, nella Critica della ragion praticasi presenta la libertà come uno dei tre postulati, cioè uno dei tre requisiti fondamentali senza i quali la vita morale non può aver luogo. Siamo dunque di fronte a questa contraddizione: da una parte Kant concepisce la natura come priva di ogni finalità e come priva di libertà; dall’altra considera l’uomo come capace di porsi fini, e come operante in una dimensione di libertà. Dalla Critica della ragion pratica emerge la visione di un’umanità che vive in una dimensione che non ha niente a che vedere con quella naturale: sembrerebbe che ci sia un’estraneità tra la natura e l’uomo, la natura meccanicista e l’uomo dotato di finalismo. Kant si rende perfettamente conto di questa contraddizione e cerca di sanarla nella Critica del giudizio.
La Critica del giudizio è un tentativo di rintracciare la finalità nella natura. Se si rintraccia tale finalità l’opposizione si supera: la natura è cieca, l’uomo si dà finalità, sono opposti, ma se ritroviamo la finalità anche nella natura la conciliazione sarà avvenuta. Questo è appunto il tentativo che Kant compie nella Critica del giudizio. Un altro elemento per capire dove si colloca la Critica del giudizio è questo: abbiamo detto nella Critica della ragion pura si conosce solo il fenomeno, il noumeno è inconoscibile di per sé, quindi l’assoluto, l’infinito, Dio, la cosa in sé, sono inconoscibili. Nella Critica della ragion pratica Dio e l’immortalità dell’anima non vengono dimostrati, in quanto non sono oggetto di un discorso conoscitivo, ma sono postulati attraverso i quali l’uomo entra in contatto con il noumeno. Si palesa quindi un altro antago- nismo: nella sfera conoscitiva l’uomo è confinato al fenomeno, nella sfera morale, invece, l’uomo attinge il noumeno. Come si può conciliare tutto questo? È possibile una considerazione della natura che ci faccia andare oltre la conoscenza fenomenica? Kant affronta qui un problema enorme della storia della filosofia: esiste un’unica realtà di cui l’uomo è parte, allo stesso titolo di tutti gli altri enti, oppure l’uomo è qualche cosa di qualitativamente diverso dal resto della realtà? Su questo la filosofia, le religioni, sono state in continua polemica, perché, per esempio, la religione cristiana implica che oltre al mondo materiale c’è un mondo spirituale, che ha altre leggi, ha un’altra qualità; il platonismo implica il mondo sensibile e il mondo delle idee; Cartesio divide la realtà tra la res extensa, il mondo materiale, e la res cogitans, con tutti i problemi che derivano poi dal rapporto tra questi due mondi, ecc. Kant quindi, con un linguaggio nuovo, esprime un problema molto antico. Per risolvere questo problema egli compie un grande sforzo teorico che comporta anche un’innovazione linguistica, che è una delle difficoltà di questo testo. La prima innovazione è proprio nel titolo: Critica del giudizio. Bisogna tenere presente che in tedesco il termine tradotto in italiano come “giudizio” è Urteilskraft, una parola composta da Kraft = forza, facoltà, capacità, e Urteil = giudizio. Il titolo andrebbe quindi più esattamente tradotto come Critica della capacità di giudicare. Evidentemente Kant si riferisce a un’altra capacità, a un’altra facoltà dell’uomo, oltre la ragione e la volontà. Infatti sostiene proprio questo: l’uomo non è solo diviso tra teoria e pratica, tra conoscenza e agire morale: nell’uomo c’è anche un’altra sfera che deve essere identificata, regolata, criticata, cioè capita nei suoi limiti, questa sfera, grosso modo, è la sfera del sentimento, del gusto. Tale sfera egli la vede come una facoltà da definire con un termine nuovo: la facoltà di giudicare. La facoltà di giudicare, una facoltà intermedia che comprende il sentimento e il gusto, emette tipi di giudizi che si chiamano giudizi riflettenti e sono tutta un’altra cosa rispetto ai giudizi conoscitivi trattati nella prima Critica.
È opportuno riepilogare i problemi terminologici: Critica del giudizio significa valutazione della facoltà di giudicare; i giudizi sono di due tipi: da una parte c’è il giudizio della Critica della ragion pura, vale a dire il giudizio conoscitivo, il giudizio sintetico a priori, che ora Kant chiama, con un nuovo termine, giudizio determinante; poi ci sono i giudizi emessi dalla sfera del sentimento, del gusto, dalla facoltà di giudicare, che chiama giudizi riflettenti. Kant denomina ora “giudizio determinante” il giudizio sintetico a priori, cioè il giudizio conoscitivo emesso dall’intelletto, di cui ha detto tutto quello che c’era da dire nella Critica della ragion pura. Perché questa innovazione terminologica? Perché Kant sostiene che, per distinguerlo da quello riflettente, il giudizio sintetico a priori si può chiamare “determinante” in quanto consiste in una reciproca determinazione, delimitazione, della categoria e della cosa. ‘Determinare’ viene dal latino terminus, che significa confine, pietra di confine tra i vari poderi, tra i vari appezzamenti di terreno. Determinare significa confinare, delimitare; un giudizio determinante è un giudizio che restringe, cha dà limiti a qualche cosa. Che cosa viene limitato? Prima di tutto le categorie. Se consideriamo per esempio la categoria di causalità, essa si può applicare a infiniti fenomeni causali; nel momento in cui dico: “A è causa di B”, sto determinando la categoria di causalità, la sto cioè confinando, le sto ponendo limiti, applicandola a un caso specifico, particolare. Così pure, a loro volta, gli oggetti vengono delimitati, si dà loro una caratterizzazione specifica collegandoli attraverso la categoria di causalità. Il giudizio sintetico a priori, illustrato nella Critica della ragion pura, è dunque determinante in quanto delimita, determina: determina la categoria e insieme i fenomeni cui essa si applica. Il giudizio determinante è un giudizio conoscitivo. Il giudizio riflettente, proprio della Urteilskraft, cioè della facoltà di giudicare, invece non è un giudizio conoscitivo. La conoscenza è stata già analizzata in maniera esaustiva nella prima Critica; bisogna tenere presente che col giudizio riflettente ci muoviamo in un’altra sfera. Il giudizio riflettente è un giudizio di tipo particolare e si chiama “riflettente” perché, mentre nel giudizio determinante la categoria da applicare è già nota, nel giudizio riflettente bisogna riflettere sull’oggetto per trovare la categoria, quindi la categoria non è già data, ma deve essere rintracciata attraverso una riflessione. La categoria, che consiste qui in una specifica finalità dell’oggetto, deve essere rintracciata attraverso la riflessione. Ma c’è anche un altro motivo, per cui il giudizio è detto riflettente: in un oggetto della natura, o in un’opera creata dall’uomo, esso ci permette di cogliere riflessa la finalità che ci portiamo dentro di noi. Abbiamo scoperto nella Critica della ragion pratica che siamo esseri che si danno fini, si danno il fine morale del bene; ora, nel giudizio riflettente vediamo riflesso questo nostro finalismo all’interno di certi tipi di oggetti della realtà. Questi tipi di oggetti sono gli oggetti belli da una parte, e gli organismi viventi dall’altra. Il giudizio riflettente mi porterà a vedere riflessa la mia esigenza di finalismo negli oggetti belli e negli organismi viventi, esso si dividerà in due sottotipi: il giudizio estetico e il giudizio teleologico.
Il giudizio estetico permette di ritrovare una finalità negli oggetti belli, fa ritrovare al soggetto riflessa negli oggetti belli l’esigenza di finalismo, nel senso che gli oggetti belli sembrano essere fatti al fine di suscitare emozioni estetiche, di suscitare un senso di armonia in chi li contempla, quindi danno l’impressione di avere una finalità rivolta verso chi fruisce dell’opera d’arte, chi fruisce della bellezza, cioé verso l’osservatore, il soggetto. Per questo Kant dice che i giudizi estetici sono giudizi riflettenti di finalità soggettiva, in cui cioè la finalità sembra essere rivolta al soggetto; i giudizi teleologici, invece, sono giudizi che si riferiscono alla considerazione degli organismi viventi. Questi ultimi sembrano essere fatti in modo che le parti siano finalizzate al tutto: un organo di un organismo vivente, sia esso una pianta, un animale o un essere umano, non ha senso se non in vista del finedella vita dell’organismo nella sua interezza: il braccio, la mano, il fegato, le radici, le foglie, non hanno senso di per se stessi, ma solo in quanto servono al fine di mantenere in vita un determinato organismo vivente. In questo caso il finalismo è rivolto all’oggetto, all’organismo, per cui Kant dice che i giudizi teleologici, cioè i giudizi finalistici, sono giudizi riflettenti di finalità oggettiva, cioè interna all’oggetto stesso.

A questo punto va sottolineata l’attenzione che Kant rivolge al mondo biologico. La filosofia del Seicento e del Settecento è stata dominata dalla fisica galileiana e newtoniana; i problemi di metodo che si sono posti i filosofi del Seicento e del Settecento erano stati suscitati prevalentemente dalla fisica. Il fiorire della biologia a fine Settecento e poi il suo sviluppo nell’Ottocento mostrano alla riflessione filosofica che c’è un mondo molto più complesso di quello fisico, il mondo del vivente, in cui il meccanicismo non spiega tutto. Nel corso dell’Ottocento si arriverà all’evoluzionismo di Darwin, a una filosofia che coincide con una biologia, ma Kant è il primo a porsi con chiarezza il problema del vivente: l’organismo vivente scompagina la visione meccanicistica che ci è venuta dal Seicento, dal Settecento, da Galileo e da Newton, in quanto nell’organismo vivente non funzionano solo le leggi fisiche implicanti un rapporto di esteriorità fra le parti. Le leggi della fisica considerano parti di materia, corpi che agiscono su altri corpi dall’esterno, dando luogo a tantissimi fenomeni: gravità, accelerazione, attrito, dinamica dei fluidi, incidenza dei raggi luminosi, ecc., ma sono tutti eventi che riguardano esteriorità che si pongono in relazione con altre esteriorità, oggetti che sono reciprocamente esterni, le cui dinamiche sono interpretabili in base al meccanicismo. Nella sfera biologica invece il meccanicismo  non spiega i fenomeni in maniera adeguata, perché in un organismo il rapporto delle parti col tutto non è un rapporto di esteriorità, bensí di implicazione reciproca e di relazione col tutto. Per fare un esempio molto banale, un organo divelto da un organismo vivente (un ramo staccato da un albero, un petalo staccato da un fiore) non ha una sua consistenza autonoma: esso ha vero significato solo all’interno del tutto. Nella biologia il concetto di totalità organica, di cui la parte è semplicemente parte, è decisivo; in biologia il tutto precede le parti, nella fisica invece le parti possono essere autonome. Negli altri campi delle scienze le parti non sono “parti”, sono elementi, stanno per conto loro, e quindi si potranno sommare tra di loro e sommandosi daranno luogo al tutto, invece in biologia il tutto precede le parti, in quanto logicamente la parte è subordinata al tutto e non si può svellere dal tutto mantenendo ugualmente la sua funzione. Pertanto in questa sfera il meccanicismo, la reciproca esteriorità, la prevalenza della parte sul tutto non spiegano i fenomeni, e soprattutto – fatto che ci interessa per lo sviluppo della filosofia romantica – si rivela inadeguata la mentalità propria della fisica (dominante anche nella Critica della ragion pura) per cui c’è causa ed effetto, una esterna all’altro, e il mondo è fatto di tante cause e tanti effetti, cioè  di tanti frammenti, che poi possono essere ravvicinati tra di loro fino a formare somme e totalità, ma in effetti hanno dimensione autonoma; nella biologia, invece, le parti non possono essere viste come indipendenti: il tutto predomina sulle parti, e questa sarà una prospettiva decisiva per l’idealismo.

Riepiloghiamo: il giudizio riflettente si divide in giudizio estetico, cioè di finalità soggettiva, e giudizio teleologico, di finalità oggettiva. Fissato questo schema, vorrei proporre una serie di brani tratti dalla Critica del giudizio, ma prima di tutto una delle ultime pagine della Critica della ragion pratica: «Due cose riempiono lo spirito d’un’ammirazione e d’una venerazione sempre nuova e sempre crescente, quanto più la riflessione vi si applica: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in meIl primo spettacolo, d’una moltitudine innumerevole di mondi, annulla, per così dire, la mia importanza di essere animale, che deve rendere la materia di cui fu formato alla terra (un punto nell’universo), dopo di essere stato per breve tempo (non si sa come) animato da una forza vitale». È una visione molto suggestiva e drammatica: l’uomo è un granello di sabbia, egli deve rendere la sua energia vitale alla terra, che a sua volta è un punto nell’universo. Nella prospettiva della natura l’uomo è annullato, è un granello di sabbia su un altro granello di sabbia, sembrerebbe privo di qualsiasi valore. Al contrario, la legge morale ci fa scoprire il nostro enorme valore: «Il secondo invece eleva infinitamente il valore di me come ragione per la mia personalità, in cui la legge morale mi rivela una vita indi- pendente dall’animalità ed anche da tutto il mondo sensibile». Nell’agire morale l’uomo è indipendente dalla materia. Questo è il dualismo, come Kant stesso lo ha espresso in maniera mirabile. A questo punto finisce la Critica della ragion pratica e inizia la Critica del giudizio.
Questa è la definizione che dà Kant di giudizio: «Giudizio in generale è la facoltà di pensare il particolare come contenuto nel generale». Il giudizio riconduce un particolare a un universale mediante una categoria. Si tratta di congiungere un soggetto con un predicato, un soggetto particolare con un predicato universale: questo è il giudizio. «Se è dato il generale (la regola, il principio, la legge) [in termini kantiani la categoria] il giudizio che a questo sussume il particolare è determinante. Se è dato invece soltanto il particolare [il fiore, il tramonto, l’arcobaleno, la statua, ecc.], il giudizio che deve trovare il generale [a cui sussumerlo] è semplicemente riflettente». Kant dà questa definizione per distinguere i giudizi: il giudizio determinante è un giudizio in cui l’universale è già dato sotto la forma di una categoria, invece nel giudizio riflettente ho di fronte a me il particolare e devo riflettere per trovare qual è la sua finalità, sotto quale universale finalistico ricondurlo.
A questo punto Kant apre un discorso molto importante: cerca di fondare l’autonomia della sfera estetica. Il giudizio estetico mi permette di cogliere il fatto che l’oggetto, naturale o artificiale che sia, sembra essere fatto apposta per suscitare il giudizio nel soggetto. Kant sottolinea che questo giudizio estetico, il giudizio per cui una cosa viene qualificata come bella, non ha niente a che vedere con un giudizio empirico, quindi non ha niente a che vedere con la materialità, con la fattualità della cosa, è, come sempre in Kant, un giudizio trascendentale. Kant opera una rivoluzione copernicana anche nell’estetica. La rivoluzione copernicana nella conoscenza è racchiusa nella formula: l’Io è il legislatore della natura. La seconda rivoluzione copernicana è quella della morale: non ci sono contenuti buoni di azione, ma è il soggetto, con la sua ragione, a stabilire ciò che è buono, cioè corrispondente alla ragione; anche nel campo morale il legislatore è l’Io, il soggetto, l’uomo. Infine nell’estetica, nella sfera del bello, è il soggetto che decide che cosa è bello; è l’uomo che, con un’operazione di tipo trascendentale, ricerca il riflesso della bellezza nelle cose. Non ci sono oggetti belli di per sé: è l’uomo, il soggetto, che proietta l’esteticità, il finalismo estetico sugli oggetti. Una rivoluzione copernicana anche nell’estetica: l’essere bello di una cosa non dipende da fattori di carattere empirico, materiale, ma da un elemento di carattere trascendentale. E la parola, “trascendentale” per Kant indica sempre qualche cosa che è presente a priori nel soggetto e viene messo in gioco dall’oggetto. Su queste basi, Kant cerca di distinguere con chiarezza il gradevole dal bello. In quanto trascendentale, anche il giudizio riflettente è universale; questo sembra oggi un paradosso, in quanto dominano estetiche di tipo arbitrario. Kant afferma che il bello è soggettivo ma universale nello stesso tempo: è vero che il bello è una proiezione del soggetto sull’oggetto, ma tutti gli uomini attuano questa proiezione in maniera analoga. Il punto non è evidente a prima vista. Kant afferma con nettezza: il bello non ha niente a che fare col gradevole. Il gradevole risponde alla famosa massima latina “De gustibus non disputandum”: quello che è gradevole per me può non essere gradevole per te, e non possiamo prevalere l’uno sull’altro, ognuno si terrà la propria opinione su quello che considera gradevole secondo i suoi gusti, in quanto il gradevole è qualche cosa di empirico; a Tizio piace il caffè amaro, a Caio piace dolce: sui gusti non si discute. Quando si tratta del bello, invece, secondo Kant si ha a che fare con una sfera universale: il bello non è soggettivo nel senso di arbitrario, individuale. Tale è il gradevole. Il bello è soggettivo nel senso universale e trascendentale.
La prima caratteristica del bello è che esso è disinteressato. «Bello è ciò che piace senza interesse – Il gusto è la facoltà di giudicare un oggetto o una rappresentazione mediante un piacere o un dispiacere, senza alcun interesse. L’oggetto di tal piacere dicesi bello». Che cosa intende Kant per interesse? «È detto interesse il piacere che noi connettiamo alla rappresentazione dell’esistenza di un oggetto». Kant tra l’altro apre qui la strada all’estetica romantica del fantastico: l’arte e la bellezza in generale non hanno niente a che vedere con la reale esistenza delle cose di cui si occupano, in quanto la bellezza è qualche cosa di trascendentale, non è legata alla materialità, all’empiria, alla fattualità, e neppure all’esistenza. Il bello è disinteressato: ci si trova in un rapporto di godimento estetico quando non si ha alcun interesse per l’esistenza reale dell’oggetto. Kant specifica meglio questo nel periodo successivo: «Esso ha perciò sempre relazione alla nostra facoltà pratica (desiderio o appetizione o volontà). Ora invece, quando si tratta di decidere se qualcosa sia bello o non bello, non si chiede se a noi o a qualunque altro importi o anche solo possa importare l’esistenza della cosa, ma come noi la giudichiamo nell’atto della semplice pura contemplazione (intuizione o riflessione)». Quando ho interesse a che una cosa esista, secondo Kant, è per tre motivi: o perché mi può dare piacere (desiderio); o perché mi può essere utile (appetizione); o perché può portare al bene (volontà). Desiderio, appetizione, volontà che cosa implicano? Desiderio implica interesse alla cosa perché mi può dare piacere; appetizione, interesse alla cosa perché essa mi può recare utilità; volontà, la volontà buona, interesse all’esistenza della cosa perché essa mi può portare al bene morale. Queste affermazioni di Kant sono state di importanza grandissima nella storia dell’estetica. Il bello è definito come una qualità autonoma, disinteressata rispetto all’esistenza dell’oggetto, quindi disinteressata rispetto a ogni finalità pratica. Di conseguenza, quando ci troviamo di fronte a un’opera che per esempio produce effetti di utilità, o di bontà, non per questo siamo di fronte all’arte. Dal punto di vista kantiano, quando un artista  ricerca un fine di utilità, per esempio di suscitare un sentimento patriottico, di dare un insegnamento, ecc., non c’è la bellezza, non siamo in contatto con l’arte. Allo stesso modo Kant dice che bisogna stare attenti anche all’interesse della volontà, cioè all’interesse che l’oggetto artistico, l’oggetto bello, susciti bontà, muova la volontà buona, perché anche questo è estraneo alla pura contemplazione estetica. In questi casi l’arte è stata inquinata da un interesse pratico. Questo interesse pratico, basso come l’utilità, o alto come la bontà, comporta pur sempre un inquinamento della pura contemplazione estetica. Allora, perché ci sia la poesia veramente pura, perché ci sia l’arte veramente pura, ci dev’essere il disinteresse assoluto verso tutti i risvolti pratici che l’oggetto può implicare. Non parliamo, ovviamente, dei banali risvolti di mercato: è chiaro che un’opera d’arte non ha niente a che vedere con il suo valore di mercato, che è un fatto crassamente pratico, utilitaristico in senso bruto. Ma addirittura, ripeto, anche l’utilità nel senso più elevato, come nel caso del patriottismo, è estranea alla sfera della bellezza, alla sfera estetica, alla sfera dell’arte.
«Bello è ciò che piace universalmente senza concetto. Circa il gradevole ciascuno riconosce che il suo giudizio, fondato su di un sentimento personale, si limita, quanto al valore, alla sua persona. Quando perciò egli dice: il vino delle Canarie è gradevole, egli non s’offende se un altro lo corregge e gli ricorda che può solo dire: il vino delle Canarie è gradevole per me… in riguardo al gradevole bisogna attenersi al principio che ciascuno ha il suo proprio gusto (dei sensi). Tutt’altrimenti sta la cosa per il bello. sarebbe ridicolo se alcuno, che ci tenesse al proprio gusto, cercasse di giustificarlo col dire: quest’oggetto (come quest’edifizio, quell’abito, quel concerto, quella poesia) è bello per me. Perché egli non può chiamare bello ciò che piace solo a luiEgli dice perciò: la cosa è bella, e non attende l’accordo degli altri circa il suo giudizio perché li ha trovati più volte d’accordo con sé, ma lo esigeEgli li biasima quando giudicano diversamente e nega loro quel gusto, che pure tutti dovrebbero avere. Perciò non si può dire che ciascuno ha il suo gusto particolare: ciò sarebbe come dire che non vi è gusto». Il gradevole è soggettivo e personale, il gusto è invece soggettivo ma universale, trascendentale; il gusto è quello che ci permette di formulare il giudizio estetico, che Kant infatti chiama “giudizio estetico o di gusto”. Quest’affermazione sembra paradossale, ma riflettiamo con un esempio: anche se consideriamo l’opera d’arte più riconosciuta, la Gioconda, qualcuno può dire di essere andato al Museo del Louvre a vedere la Gioconda e di non aver vissuto alla sua vista alcuna emozione estetica. Si può mai sostenere che il gusto è universale, come afferma Kant? Direi che la difesa di Kant si può articolare in questi termini: per raggiungere veramente il giudizio estetico bisogna prescindere da tutto ciò che è empirico, da tutto quello che è fattuale, materiale. Bisogna escludere l’utilità, la morale, ogni praticità. Non è facile, perché tutto questo si insinua nelle maniere più imprevedibili nella nostra considerazione estetica. Che cosa voglio dire? Una cosa apparentemente banale: se una persona è stanca o distratta non riesce ad apprezzare la Gioconda, infatti c’è un elemento fisico, materiale, fattuale, che impedisce di mettere in moto la funzione trascendentale superiore. Tutto ciò non è per niente scandaloso, infatti, se una persona è stanca, non riesce neppure a dimostrare un teorema di geometria, cioè a usare correttamente la ragione. Per Kant si può entrare in sintonia con la bellezza, si può emettere il giudizio estetico, soltanto quando si sono messe da parte tutte le pesantezze dell’empiria. Ripeto, se non c’è una disponibilità o una educazione all’apprezzamento della bellezza, purtroppo spesso avviene che non c’è neppure un’educazione o una disponibilità all’uso dell’in- telletto e della ragione. Allora, come una persona non colta, non avendo avuto coltivata la propria razionalità, non riesce a risolvere un problema, così, non avendo avuto coltivata la propria facoltà di giudicare, non riesce ad apprezzare un’opera d’arte; ciò non toglie che la capacità di risolvere il problema e la capacità di apprezzare l’opera d’arte siano universali, a patto che però queste potenzialità umane vengano educate ed esercitate. E Kant aggiunge anche un altro elemento: «Bello è ciò che piace universalmente senza concetto». Si riesce a cogliere la bellezza di un’opera d’arte in maniera intuitiva, senza un ragionamento, senza uno sforzo di carattere concettuale. La bellezza si coglie intuitivamente, “senza concetto”. Come non ha niente a che vedere con la pratica, così l’arte non ha niente a che vedere con la teoria. Ciò che è bello non riguarda la pratica, l’utile, il piacevole e la morale, ma non riguarda neppure la conoscenza, la teoria: un romanzo non ci dà una conoscenza sul reale; il romanzo, la poesia, le giraffe in fiamme o gli orologi che si liquefano di Salvador Dalì, sono oggetti non reali, la Divina Commedia è un viaggio completamente fantastico, non ci dice niente sulla realtà di fatti che siano avvenuti. Kant vuol dire: l’estetica è una sfera autonoma dalla pratica,  ma anche dalla teoria. Bello è ciò piace universalmente senza concetto, cioè senza riferimento alla conoscenza.
Il bello è disinteressato e universale, poi Kant aggiunge che è necessario. Ribadisce che tutti devono ricono- scere, se si mettono in sintonia con la cosa bella, che essa è bella, quindi il bello è appunto universale e necessario insieme. Infine aggiunge un’altra definizione: il bello è finalistico senza scopo. Che cosa vuol dire? Se avesse uno scopo, ricadremmo nell’empirico; cioè se avesse lo scopo di arricchirci, di darci piacere, ecc., sarebbe un fatto empirico. La bellezza presenta un ben diverso finalismo: il bello nasce quando c’è una finalità di armonia, di proporzione tra le parti che compongono la cosa bella; questa finalità si manifesta poi nella finalità di rispondere al nostro senso di armonia, di proporzione. Il bello è finalistico nel senso che ha il fine di attivare il senso di armonia del soggetto, di mettere in moto il finalismo interno al soggetto. Queste sono le caratteristiche del bello per Kant.
Kant distingue il bello libero e il bello aderente. Il bello libero è quello che egli considera più puro. Si tratta di un concetto che ci aiuta molto a capire che cosa Kant intende per bellezza. Leggiamo il brano che vi si riferisce: «Così i disegni à la grecque [i disegni geometrici che si ripetono in maniera armoniosa indefinitamente], gli arabeschi [Maometto impediva la venerazione delle immagini, per cui gli Arabi svilupparono la decorazione per arabeschi, motivi ornamentali vegetali che si ripetono inde- finitamente, senza rappresentare niente di preciso],nelle incorniciature o nelle tappezzerie non significano nulla per sé: essi non rappresentano nulla, non rispondono ad alcun oggetto secondo un concetto determinato, e sono bellezze libereSi può anche ricondurre al medesimo genere di bellezza le fantasie musicali (senza tema)anzi tutta la musica senza testo. Nella valutazione di una bellezza libera (secondo la pura forma) il giudizio di gusto è puro». La musica senza tema, gli arabeschi, le greche, ecc., che non mirano a far immaginare niente e non sono la riproduzione di un’immagine, sono le forme di bellezza più pure, in quanto non presentano il pericolo di inquinamento dell’emozione estetica da parte di un interesse. Oltre al bello libero c’è anche un bello aderente, che aderisce all’oggetto. Dice Kant: «Ma la bellezza di una figura umana (sia essa maschile, femminile o infantile), la bellezza di un cavallo, di un edificio (chiesa, palazzo, arsenale, villa) presuppone il concetto di un fine che determina ciò che la cosa deve essere e quindi un concetto della sua perfezione, ed è perciò una bellezza aderente». La bellezza libera non si riferisce a nessun concetto, a nessuna immagine, a nessun modello; la bellezza aderente: un cavallo perfettamente proporzionato, un essere umano come quelli che disegnava Leonardo da Vinci, oppure una casa armoniosa, ecc., bene o male rispondono pur sempre al modello di cavallo perfettamente elegante, di casa perfettamente proporzionata, ecc. Il bello aderente è meno puro di quello libero in quanto cerca di rispondere alla perfezione di un modello, di aderire a un modello, al concetto della cosa di cui è immagine, mentre invece il bello libero non pre-tende di riprodurre alcuna immagine. Kant prosegue: «L’unione del buono (ciò per cui il molteplice è buono a qualche cosa, secondo il suo fine) con la bellezza altera a sua volta il giudizio stesso». Nel bello aderente c’è la tendenza a che la bellezza corrisponda a un modello che altera il giudizio estetico, non lo fa essere perfettamente puro.
A questo punto Kant nella Critica del giudizio passa a un’altra dottrina cui accenno soltanto perché è importante per il Romanticismo: a proposito del bello d’arte, afferma che il bello d’arte ha una caratterizzazione precisa, esso è prodotto dal genio. Introduce un concetto che sarà al centro dell’estetica romantica: il bello artificiale per essere prodotto ha bisogno di una personalità particolare, di una personalità che abbia una sensibilità fuori del comune, ha bisogno del genio. La definizione del genio è data da Kant in questo senso: il genio possiede una tale creatività originaria che sembra dare luogo a fenomeni naturali. Esso è assolutamente alieno da regole; non può sottostare a regole. C’è una polemica con il classicismo: il genio non si può ispirare a modelli, esso è semplicemente creatore; come la natura, dà luogo a forme che crea da se stesso. La vera opera d’arte deve dare l’impressione di una tale perfezione, di una tale organicità, da sembrare un organismo vivente nato dalla forza generatrice della natura. La forza generatrice della natura è eguagliata soltanto da pochi uomini eccezionali, che hanno una sensibilità particolare, i geni, la cui creazioni danno l’idea di un che di spontaneo come un organismo naturale.
Un altro elemento romantico in Kant è quello del sublime. In che cosa questo si distingue  dal bello? Il bello è qualche cosa che ha una forma, che è caratterizzata da proporzione e armonia. Il sublime, invece, è qualche cosa di informe. Per esempio sublimi sono la distesa dell’oceano, un massiccio montuoso, una nevicata, un’eruzione vulcanica. Mentre il bello è sempre qualche cosa di circoscritto, di delimitato, che ha forma, il sublime, proprio perché è informe, è tendenzialmente infinito, e si distingue dal bello anche perché ci procura un’inquietudine. Il bello ci fa sentire a casa nostra, ci mette a nostro agio, ci sembra rispecchiare la nostra più intima finalità, è pienamente consono con noi stessi. Invece il sublime ci spaventa, ci dà il senso della nostra piccolezza, della nostra insignificanza fisica, a cui, però, subentra immediatamente dopo il senso della grandezza morale, della grandezza spirituale dell’uomo. Il sublime presenta dunque una dinamica particolare: prima sembra essere qualche cosa di aggressivo, che schiaccia l’osservatore, ma il soggetto, subito dopo, recupera il senso della propria superiorità spirituale su questa entità che dal punto di vista fisico gli sembrava soverchiante e minacciosa. Il sentimento del sublime, che si manifesta nei confronti dell’informe, del grandioso, presenta due manifestazioni: il sublime matematico e il sublime dinamico. Il sublime matematico è generato da un’estensione immensa: il mare, il deserto, un ghiacciaio, un massiccio montuoso. Invece il sublime dinamico è una forza soverchiante, una potenza straordinaria che sembra doverci travolgere e di fronte a cui, invece, acquistiamo poi il senso della nostra grandezza morale; per esempio l’eruzione vulcanica, il mare in tempesta, un uragano, una tormenta di neve, e così via.
Vediamo un po’ meglio e più da vicino che cosa dice Kant: «Il sentimento estetico del sublime è un piacere o senso di esaltazione che segue a un senso di depressione delle nostre energie vitali [mentre il bello intensifica le nostre energie vitali, ci fa sentire in espansione, il sublime è un’esaltazione che segue a una depressione: ci sono due momenti, è più complesso]. Il piacere del sublime è diverso da quello del bello; questo infatti produce direttamente un sentimento di esaltazione della vita; quello invece è un piacere che ha solo un’origine indiretta, giacché esso sorge dal sentimento di un momentaneo arresto delle energie vitali, seguito da una più intensa loro esaltazione». Dapprima si ha un senso di oppressione e di sconfitta, poi ci si riprende. Questa concezione influenzerà profondamente l’estetica romantica, anzi l’estetica fino a oggi, in quanto, rispetto all’arte classica, all’arte rinascimentale, all’arte neoclassica, in cui tutto è ben proporzionato, ben delimitato e c’è il senso della prospettiva, con la teoria del sublime anche l’informe e l’illimitato rientrano nella sfera estetica. L’informe prende il sopravvento su quello che è dotato di forma. Questa tendenza, iniziata con il Romanticismo, è delineata nella teoria del sublime di Kant. Se i romantici si possono avventurare su strade che pervengono fino all’orrido è proprio per la teoria del sublime di Kant, il quale per primo ha colto una sfera dell’estetica che non implica semplicemente la soddisfazione di veder riflessa l’armonia, di godere l’intensificazione delle energie vitali, ma può essere anche la conseguenza di un sentimento contrapposto; su questa strada poi alcuni romantici arriveranno a teorizzare l’estetica del brutto, perché paradossalmente anche certe forme parzialmente brutte possono mettere poi, per contrasto, in moto un sentimento di armonia nell’uomo. L’arte, dall’Ottocento in poi, è arrivata a forme che prima erano assolutamente impensabili.
«Chi teme può tanto poco giudicare del sublime della Natura, quanto colui che è in preda delle passioni e degli appetiti può giudicare del bello». Del sublime non si deve provare orrore, timore, come non si deve provare piacere nel caso del bello; anche nel sublime, sottolinea Kant, non c’entra l’empirico, il materiale, il sensibile: se temo non sono in procinto di avvertire il sentimento del sublime; come se ho una sensazione di piacere corporeo, non sto avendo a che fare col bello. Come il bello è separato dal corporeo, dal sensibile, dal materiale, così anche il sublime. Quindi: «Chi teme può tanto poco giudicare del sublime della Natura, quanto colui che è in preda delle passioni e degli appetiti può giudicare del belloEgli fugge la vista dell’oggetto che gli incute timore ed è impossibile provar piacere in un timore effettivamente sentito [se si è veramente in pericolo per un’eruzione vulcanica non si potrà provare nessun sentimento estetico per l’eruzione stessa]. Perciò il senso di sollievo che ci dà il cessare di una minaccia è gioia. Ma questa, se deriva dalla liberazione di un pericolo, è gioia solo quando noi pensiamo che non ne saremo più minacciati; e si è tanto lontani dal cercare l’occasione di riprodurre in noi tale sensazione, che anzi non ci pensiamo mai volentieriLe rocce che s’elevano ardite e quasi minacciose, le nuvole temporalesche che s’ammassano nel cielo tra lampi e tuoni, i vulcani nella loro potenza devastatrice, gli uragani che lasciano dietro di sé la devastazione, l’oceano senza limite sollevantesi in tempesta, l’alta cascata di un grande fiume, tutte queste cose riducono a un’insignificante piccolezza il nostro potere di resistere a tanta forza. Ma la loro vista ci esalta tanto più quanto più è spaventevole, a condizione che ci troviamo al sicuro». Se contempliamo questi spettacoli della natura senza essere affetti da un sentimento empirico di paura, allora si mette in moto il senso del sublime, cioè allo sgomento segue il nostro senso di superiorità morale. «In tal modo la Natura nel nostro giudizio estetico non è giudicata sublime in quanto essa è temibile, ma in quanto essa risveglia in noi una forza (che non è natura), per cui consideriamo come insignificanti quelle cose delle quali ci preoccupiamo (i beni, la salute, la vita), e riconosciamo quindi che la forza della Natura (a cui noi, per rispetto a tali cose, siamo assolutamente soggetti) non ha sopra di noi e sopra la nostra personalità, fuori di questo campo, un così assoluto dominio che noi ci dobbiamo piegare ad essa, come se essa si estendesse alla sfera dei principii supremi della nostra vita e riguardasse la loro affermazione o il loro abbandono». Il sublime è anch’esso trascendentale: la natura si presenta come sublime non perché sia sublime in se stessa, infatti se mi trovo non di fronte a un uragano, ma dentro, se mi trovo ad assistere a un’eruzione vulcanica, ma troppo da vicino, questo non mi dà il senso del sublime. Vi ho proposto questo brano perché mi sembra illustrare bene il fatto che l’estetica di Kant è un’estetica antiempirica, non ha niente a che vedere con l’empirico: mi posso trovare di fronte a un’eruzione vulcanica a distanza, senza temerla, e provo il senso del sublime; ma se mi trovo in un luogo minacciato da un’eruzione vulcanica, non lo provo. Il sublime quindi non dipende dall’empirico, dalla cosa, ma dalla proiezione del senso del sublime che il soggetto opera sulla cosa. Ancora la rivoluzione copernicana: il bello, ma anche il sublime, è trascendentale, è una proiezione umana sull’oggetto. Si tratta di un apporto soggettivo e non naturale. «La Natura dunque è detta sublime in questo caso solo perché essa eleva l’immaginazione a rappresentare quei casi in cui l’anima può sentire la sublimità della sua destinazione, anche al di sopra della NaturaLa sublimità dunque non sta in nessuna cosa della Natura, ma solo nell’animo nostro».
Abbiamo discusso il giudizio estetico. Segue il giudizio teleologico, cioè il giudizio che permette di rintracciare una finalità negli organismi viventi. Esso si formula soprattutto di fronte alle piante, agli animali, agli organismi che danno l’idea che le parti sono fatte al fine di rendere possibile la vita del tutto. Kant dice a proposito del giudizio teleologico: «La finalità d’un oggetto dato dall’esperienza nel giudizio teleologico riposa su di un principio oggettivo, come accordo della forma dell’oggetto con la possibilità della cosa stessa secondo un concetto di essa che precede e contiene il principio della sua forma». Nel giudizio teleologico c’è un principio oggettivo, c’è una finalità che riguarda l’oggetto, mentre nel giudizio estetico c’era una finalità che riguardava il soggetto osservante,  il soggetto contemplatore. Qui invece la finalità è un principio oggettivo che dà l’idea che ci sia un concetto della cosa che precede e contiene il principio della sua forma: sembra che l’animale, il gatto, il cane, la pianta, siano rispondenti a un principio, siano frutto di un progetto, siano stati “fatti apposta”. È chiaro che così si apre la strada alla visione di un architetto della natura che ha inserito finalità all’interno della natura stessa e degli organismi che la popolano. Gli organismi viventi danno l’idea che ci sia stato un architetto che li ha disegnati. «Un organismo vivente ha quella data “conformazione” in quanto alla sua produzione ha presieduto– come fine – il concetto di essa, nel quale era rappresentata la possibilità di quel tutto nel quale dovevano coordinarsi le varie parti [è come se ci fosse stato un progetto, che aveva il fine di dar luogo a quell’organismo, come se esso non fosse un frutto casuale]. Questa finalità, poiché non riferisce la forma dell’oggetto alle facoltà conoscitive del soggetto nell’apprensione dell’oggetto stesso, ma la riferisce a una determinata conoscenza dell’oggetto sotto un concetto dato, non ha da fare col sentimento di piacere suscitato dall’oggetto». Vuol dire: non c’entra il piacere e quindi l’emozione estetica del soggetto, ma qui si tratta di una finalità interna all’oggetto stesso. Sembra che gli organismi viventi ci facciano intuire che nella natura c’è un finalismo. Gli esseri biologici sono costituiti di parti che sembrano fatte “al fine” del tutto, ma c’è anche un finalismo superiore: sembra che tutta la natura abbia il fine di rendere possibile la vita dell’uomo.
Sembrerebbe che tutti i regni, minerale, vegetale e animale, siano costruiti, organizzati, al fine di rendere sempre migliore la vita dell’uomo e sempre più possibile l’espressione dell’umano. A questo punto Kant delinea un passaggio molto importante: l’espressione dell’umano, la vita dell’uomo, in che cosa consistono? Non nell’empirico e nei bisogni naturali: consistono nella ragione. Sembra che gli organismi viventi contribuiscano a un regno della natura, che sembra fatto apposta per l’uomo, e quindi favoriscano il fine dell’uomo che è il fine razionale, cioè morale. Il finalismo degli organismi biologici si amplia nel finalismo di tutta la natura. La natura sembra fatta al fine di favorire l’esistenza dell’uomo e il dispiegarsi dell’attività dell’uomo, ma l’attività dell’uomo ha il fine della morale, quindi sembrerebbe che la natura sia fatta apposta per agevolare la capacità dell’uomo di inserire fini morali nel suo agire. Kant afferma, con un termine più preciso: «La natura sembra fatta al fine di favorire la cultura». È una frase molto bella che significa che la natura sembra fatta apposta per essere dominata dall’uomo, perché l’uomo possa erigere la civiltà, ma la civiltà implica la creazione di un mondo pienamente umano, cioè di un mondo in cui tutti gli uomini siano rispettati come fini in sé, in cui sia coltivata l’umanità in tutti gli uomini, e quindi si affermi un regno dei fini, in cui ogni uomo si veda riconosciuta la dignità di persona ragionevole, rispettata per la sua razionalità. Nella Critica del giudizio la natura è l’insieme degli organismi biologici che sembra, nel suo insieme, fatta apposta per favorire la vita dell’uomo; la vita dell’uomo è la vita della cultura, cioè della civiltà che cresce sempre di più per permettere all’uomo di esplicare la propria personalità, la propria umanità; ma la propria personalità, la propria umanità, sono il fine morale. Sembra che la natura sia fatta apposta per favorire il fine morale dell’uomo. Il fine morale dell’uomo è il bene; la natura sembra finalizzata al bene.
A questo punto si chiude la Critica del giudizio e la riconciliazione è avvenuta: la natura all’inizio era deterministica, estranea a fini, adesso la natura, attraverso il giudizio estetico, ma soprattutto attraverso il giudizio teleologico, presenta oggetti, o, addirittura, tutto il suo insieme come rivolti a una finalità, quella di favorire la virtù dell’uomo. L’uomo con la sua morale, la sua libertà, il suo fine del bene, non è più antagonista della natura, che anzi favorisce questo fine. Nell’ultima citazione che vi propongo è come se Kant dicesse: «Guardate, ho fatto tutto questo discorso, ma state attenti, non rinnego una parola di quello che ho detto nellaCritica della ragion pura. Il discorso conoscitivo, per me, è chiuso con la Critica della ragion pura. Tutto quello che ho detto nella Critica del giudizio si riferisce a un’aspirazione, a un’esigenza, molto simile in qualche modo ai postulati della ragion pratica, ma non è un che di conoscitivo». «Poiché noi non osserviamo propriamente i fini come vere intenzionalità nella natura, ma aggiungiamo questo concetto col pensiero […] è per noi impossibile dimostrare l’accettabilità d’un tale concetto come oggettivamente valido». Non è un fatto conoscitivo, ma evidentemente la Critica del giudizio apre la strada all’infinito, all’assoluto, alla finalità, alla libertà, cioè, in una parola, non al fenomeno, ma evidentemente all’altra metà della realtà, alnoumeno. Kant aveva detto da illuminista: l’uomo è limitato, può conoscere solo il fenomeno. L’Illuminismo è la filosofia del limite dell’uomo: l’uomo è potente perché ha la ragione, ma la ragione, per l’Illuminismo, può conoscere solo le cose finite. Kant ha dato sistemazione a tutta la filosofia illuministica, ha sostenuto: l’uomo con lo strumento potente della ragione può conoscere il finito, ma non può raggiungere il noumeno. L’infinito, l’assoluto, la sfera noumenica sono fuori della portata della ragione umana. Ora, però, nella Critica del giudizio Kant fa affermazioni su finalità e libertà, su elementi quindi che fanno parte della sfera delnoumeno, dell’incondizionato, dell’assoluto. E quindi apre la strada al Romanticismo, che è la filosofia dell’assoluto, è la filosofia dell’infinito, è la ribellione ai limiti dell’Illuminismo.

da http://www.iisf.it/

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