Centocinquantenario dell’unità d’Italia
Fotografia della viti-enologia dell’Italia risorgimentale e post-unitaria
A forza di parlare di tradizioni inconsciamente pensiamo che i nostri vini, soprattutto quelli più blasonati, siano sempre stati buoni ed apprezzati, così come lo sono oggi. Molto istruttiva è la lettura di due pubblicazioni: “Un secolo di munu” dell’Accademia Italiana Della Cucina e “L’Italia a tavola attraverso i munù” di Domenico Musci editrice Il Punto. L’una e l’altra dedicate ai menu (o menù) che abbracciano il periodo interessato e quello successivo. Sorprende, che normalmente, fino a fine secolo, fossero scritti in francese. In prima istanza si potrebbe pensare che il nascituro Regno d’Italia, nato col forte impulso del Regno di Sardegna, dominio di Savoia, in quanto francese d’origine, per forza di cose, fosse permeato di usi costumi e della lingua d’oltralpe. Sappiamo però che il francese era lingua ufficiale solo nella parte francese, Nizza e Savoia , poi scambiate con la Francia (Napoleone III) dopo la sanguinosa seconda guerra d’indipendenza del 1859, prodroma della nascita della nostra patria. Mentre nella parte italiana: Sardegna, Liguria e Piemonte: lingua ufficiale, anche se non molto popolare, era l’italiano. Sorprende inoltre che insieme ai piatti fossero francesi soprattutto i vini, ma in questo caso, non si tratta di vini italiani tradotti nella lingua d’oltralpe, perché sono francesi d’origine, quasi sempre: Champagne, Bordeaux, Bourgogne. Se ciò avveniva senza soluzione di continuità, i vini italiani dovevano godere di scarsa reputazione anche da parte dei maggiorenti dei luoghi di produzione. All’epoca il gap fra i vini italiani e quelli francesi era infatti ben superiore a quanto riteniamo oggigiorno. Zeffiro Ciuffoletti nella sua “Storia del vino in Toscana” riporta che secondo il direttore della statistica di allora: Piero Maestri nel 1864 si produssero in Italia circa 28 milioni di ettolitri. Vittorio degli Albizi proprietario dei vigneti di Pomino e Nipozzano, sosteneva invece: che la produzione fosse di soli 24 milioni. Nello stesso periodo la Francia produceva 68 milioni di ettolitri e ne esportava più di 3, e fra questi, già oltre 6 milioni di bottiglie di Champagne, mentre le esportazioni italiane, pari a circa 300mila ettolitri pareggiavano di poco le importazioni, le prime fatte ovviamente di quei vini di qualità che ritroviamo nei suddetti menu. L’Italia che pure aveva avuto in passato un grandissimo successo coi passiti (moscati, malvasie, vini greci ) allora chiamati: vini liquori, non riuscì a fare altrettanto coi vini da pasto. Rileggendo le note degli studiosi del periodo emerge di continuo il vero nervo scoperto della nostra enologia: il paradosso che nonostante le eccellenti condizioni naturali; i nostri vini al contrario dei francesi non reggevano al trasporto. Giovanni Pieri, presidente dell’Accademia senese dei Fisiocritici, vantando la bontà del suo vino, prodotto in una specie di campo di ricerca a Presciano alle porte della città, sosteneva orgogliosamente che fosse immune dal su generalizzato difetto: “ Cotal vino ove favorito dalla annata bene indovinata nel taglio delle uve, lo conservo per gli anni in botti, in bottiglie: in queste gli ho fatto valicare i mari, gli ho fatto passare, e ripassare la linea equinoziale in buona salute.” Le spiegazioni erano molteplici e conosciute insieme ai suggerimenti per migliorare.
Il vigneto specializzato era del tutto o quasi inesistente, essendo abituale la coltura promiscua. Inoltre si dedicavono più attenzioni ai cereali coltivati gra i filari che alle viti. I primi infatti erano visti come essenziali dai viticultori dell’epoca, perlopiù mezzadri, che giudicavano un lusso la produzione di uve specialmente se di qualità. A questa insensibilità si sommava la scarsa volontà ad investire nella vigna da parte dei proprietari che trovavano più conveniente godersi senza spese il cinquantapercento che gli consegnava la mezzadria con le culture di base. Come dimenticare poi che nello stesso filare si piantavano vitigni differenti con differenti epoche di maturazione, mentre la data di raccolta era unica. Per inciso dal sito dei Padelletti, storica casata montalcinese, riportiamo: “Il vino prodotto dalle sue colline era, come d’uso nel Chianti, una miscela di vari vitigni che fiorivano in epoche diverse, per ridurre i rischi delle gelate tardive e delle grandinate precoci.” Per avere una buona produzione di cereali, i vigneti erano quasi sempre posti nei piani fertili anzichè in collina . Le viti, salvo rare eccezioni, come la coltura ad alberello del sud Italia, erano maritate a piante da frutto e non, tenute perciò, eccessivamente alte da terra. Le tecniche di cantina erano eufemisticamente molto approssimative, perché mancavano sia la scienza che i mezzi per applicarla. Inoltre in Italia abbiamo introdotto molto tardi l’uso della bottiglia ed in alcuni casi, come in Toscana, abbiamo insistito col fiasco impagliato inducendo ulteriori difficoltà. Vedasi testimonianza di Franco Biondi Santi, che nella sua recente biografia (Questa è la mia terra; M. Boldrini, B. Bruchi, A. Cappelli; Protagon editori) ci racconta la versione tranquilla del Moscadello (moscatello nel testo): “allora il moscatello veniva vendemmiato a maturazione fisiologica, vinificato in bianco e poi attraverso infinite filtrazioni sempre più strette, limpidissimo, dopo un anno veniva imbottigliato. Ma dopo un mese riprendeva a fermentare e le bottiglie, pulcianelle, scoppiavano.” La situazione era ovunque scoraggiante, seppur con qualche spinta propulsiva. Il Piemonte sia per la vicinanza con la Francia, sia per i fermenti risorgimentali era la regione più attiva. Li vi fu il tentativo partendo dalla grande quantità di moscato di trasformarlo in uno Champagne italiano, dando origine ad una vera industria enologica. I produttori piemontesi furono spinti a nuovi sbocchi commerciali perché dopo che il governo austriaco aveva abbassato nel 1833 i dazi sul vino piemontese per il lombardo veneto e gli stati emiliani, li aumentò nuovamente nel 1846, in risposta alle istanze dei viticoltori veneti ed ungheresi. Patrizia Cirio (Le cantine storiche canellesi) ci racconta che in quegli anni si parlava di: “ Champagne moscato” o di “Moscato champagne”. Ora la cosa ci appare inverosimile, perché siamo legati allo stereotipo dello Champagne secco (brut), ma dobbiamo ricordare che in quel periodo questo vino era dolce. Le prime versioni brut per il mercato inglese di metà ottocento elaborate dalla casa vinicola Perrier-Jouet non ebbero successo. Bisognerà attendere fino al 1874 perché le cose cominciassero a cambiare. Il Veneto aveva una buona produzione di vini fatti con uve semiappassite secondo la secolare filosofia dei vini “greci”, come: il Recioto della Valpolicella, il Torcolato del vicentino, il Picolit del trevigiano, del tutto simili allo fursat valtellinese. Le Venezie, dopo l’annessione al Regno d’Italia nel 1866 a seguito della terza guerra d’indipendenza persero, con molti rimpianti, il ricco mercato austriaco. Vittorio Degli Albizi, toscano di residenza, ma francese per nascita e frequentazioni, rivoluzionò di fatto la viticultura della regione introducendo con successo nuovi vitigni nei vigneti di Pomino e Nipozzano. Soprattutto introdusse criteri di razionalità con l’impianto di vigneti specializzati in sostituzione dei tradizionali promiscui. Insieme a lui altri uomini più vocati all’impresa e più permeati da basi scientifiche fecero fare grandi passi in avanti ai vini Toscani, due per tutti: Bettino Ricasoli nel Chianti e Clemente Santi a Montalcino. Dulcis in Fundo la Sicilia, dove prende avvio l’epopea garibaldina che sarà la pietra fondativa del Regno d’Italia. E’ interessante notare che lo sbarco dei mille fu favorito dalla marina inglese, colà presente, per i forti interessi legati proprio al commercio del vino Marsala. E’ noto infatti, che questa diede una non trascurabile copertura allo sbarco delle nostre camicie rosse. Il caso ha voluto, i latini avrebbero detto il fato; che il Marsala, l’erede più importante della grande tradizione dei vini passiti o vini greci, quelli che nell’ottocento erano comunemente definiti: vini liquori, che come abbiamo detto, hanno rappresentato la gloria secolare enologica della nostra Italia; diventasse anche involontario attore dell’unità nazionale, quando solo poco prima si asseriva: “La parola Italia è una espressione geografica, una qualificazione che riguarda la lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono ad imprimerle.» (Metternich 1847).
Già negli anni dell’unità la viticultura europea faceva i conti con la pernospera e l’oidio, ma il peggio era in arrivo: il morbo della fillossera. Questa comparve in Francia nel 1867 e dodici anni dopo nel 1879 in Italia prima a Valmadrera Como poi ad Imperia e Caltanisetta nel 1880; Piero Zoi riporta che Montalcino insieme ad altri tre comuni senesi fu dichiarata ufficialmente infetta per gli anni 1903-1904. Gli estesi vigneti specializzati resero la viticultura francese più esposta di quella italiana alla fillossera, tant’è che a fine ottocento i vini italiani erosero cospicue fette di mercato a quelli transalpini. Non a caso proprio in quegli anni i menu o menù dai quali siamo partiti cominciarono ad arricchirsi di vini nostrani. Purtroppo i francesi seppero debbellare il morbo e riorganizzarsi molto prima di noi, riconquistando rapidamente le posizioni perdute.